Di solito non amo trascrivere le intervistine domanda/risposta, ma stavolta necesse est un’eccezione, visto il personaggio che si commenta da sé, senza bisogno di intermediare. Don (Mons.) Vinicio Albanesi, presidente della Comunità di Capodarco, ha festeggiato i suoi “settanta” (ma vissuti da lui sono settanta volte sette) con una festicciola di 500 persone, e questo la dice lunga. E con l’occasione ha presentato il suo libro “La finestra sulla strada”, una autobiografia non solo sua, ma anche dei mille volti e delle mille storie incontrati lungo il cammino. Cominciamo.
La rubrica è quella che chiamiamo “del personaggio”: a questo punto della tua vita, tu ti senti personaggio?
Ma no! No, perché non ho mai cercato il “personaggio”, perché avrei avuto altre occasioni per diventarlo.
Però lo sei stato e lo sei: ti dà fastidio questo?
No, perché non lo vivo così. La scelta di non essere personaggio l’ho fatta tanti anni fa, quando con le prime apparizioni in tivvù la gente ti fermava… A quel punto ho capito che non valeva la pena. Se uno ha un vino scarso e lo mette in bottiglia con l’etichetta bella, non è che il vino diventa più buono.
Vabbè, ma non credo che tu ti senta un vino scarso…
Mi sento quello che sono, senza esaltazioni… Quello che ho notato è che man mano che passava il tempo c’è chi ti vuol bene perché ti vuol bene e chi ti vuol bene perché forse potresti essergli utile.
Oppure c’è chi ti vuole male, perché in fondo sei stato spesso scomodo: questo come l’hai vissuto?
L’ho vissuto bene, perché con il tempo ho imparato… In realtà anche su situazioni sbagliate o su prospettive che potevano non essere condivise, col tempo ho capito che c’erano dei pezzi di verità. Cioè, quello che ti appare, che senti, che sperimenti devi sempre metterlo a selezione, perché al di là delle apparenze, al di là delle rabbie, al di là dei linguaggi occorre sempre saper distinguere ciò che è vero. Ogni fatto non è mai totalmente buono o totalmente cattivo, occorre saper discernere e soprattutto capire la sostanza del nuovo lasciando perdere il resto. L’attenzione è quella di capire al di là delle esagerazioni e delle esasperazioni, per cui su chi mi vuol male io ci rifletto. Però, se ritengo che ciò che sostiene chi mi vuol male non è vero, sostanzialmente la cosa mi lascia indifferente.
Spesso succede che chi fa del bene, anche se lo fa con umiltà, proprio per questo dà fastidio. Perché?
La risposta me la diede una suora: sono gli effetti collaterali del fare il bene! Anche se tu un’azione la fai con buona volontà c’è sempre qualcuno a cui non basta quello che fai.
E’ perché il paragone con chi si sforza per il bene fa sentire colpevoli e diventare aggressivi?
A me succede raramente. Non so se per amore o per timore del mio caratteraccio la gente, almeno pubblicamente, non me lo dice! Prendiamo, per non offendere nessuno, i miei confratelli preti: so che “mormorano”, però non hanno il coraggio… Se uno mi fa un’obiezione io ci rifletto e non mi è difficile dare ragione se ragione ce n’è, e se non ce n’è… è un problema suo.
Tu hai incontrato parecchi ostacoli anche da parte… della tua stessa parte, magari c’è stato qualche Vescovo che ti ha dato anche addosso... Ti ha dato fastidio?
Sì, ci ho sofferto, mi sono ritirato. Ma poi, passato qualche anno, la storia scopre le verità. Quando arrivò Franceschetti mi ha cacciato da tutte le funzioni che avevo eccetto quella del parroco e di insegnante in Seminario. Però, passati cinque o sei anni mi ha richiamato e prima di morire mi ha mandato detto: “Ti voglio bene”. Mi è capitato anche quando sono tornato a Fermo nel ’73: sono stato dieci anni marginale, sono stato tenuto in una specie di deserto. L’invidia, le incomprensioni, le male lingue…, con la saggezza del tempo, poi mi consolo: al povero Cristo dicevano che era posseduto dal demonio, era ubriacone, era mangione… Se l’hanno detto a Lui, figuriamoci a me!
Hai sofferto nel sentirti “scomodo” per certa gente?
No, più che scomodo non ho sopportato lo stile con cui è stato fatto. Se uno mi dice: tu sei un imbecille, tu esageri, me lo dice in faccia e me lo fa capire sono disponibile a rivedere le mie azioni. Quello che mi dà fastidio è quando non te lo dicono, oppure non ti dicono le ragioni: ci sono degli attacchi violenti con giudizi trancianti, ma non è che ti dicono chiaro perché. Questo mi dà veramente fastidio: il non coraggio e la non lealtà. Ci possono essere sempre delle opinioni diverse che però vanno motivate, bisogna avere il coraggio di dirle, perché se tu lo dici in giro e non all’interessato sei un vigliacco. Ci sono state e ci sono delle lettere anonime, però non le leggo perché per definizione sono messaggi inqualificabili, perché non sono leali. Io, per essere leale e sincero, ho pagato di persona: potevo far carriera, potevo scodinzolare, potevo starmi zitto in alcune circostanze… Sono stato fatto oggetto di quella che ufficialmente si chiama “marginalità”, però c’è stata e c’è anche gente che mi vuole bene, che mi aiuta e mi sta vicino.
A che età sei entrato in Seminario?
Undici anni.
Ma a undici anni non si può fare una scelta cosciente di questo tipo…
Ho deciso di farmi prete attorno ai vent’anni, quando allora c’era il “suddiaconato”, cioè si riceveva la chierica. A quel punto ho riflettuto e tutto sommato ho visto che quello che mi veniva offerto manco me lo meritavo, quindi l’ho ritenuta una cosa donata più che una scelta mia.
Ma questa è una scelta che tanti all’epoca hanno quasi subito, come tanti altri bambini che entravano in Seminario perché magari le famiglie non avevano mezzi…
Io pure l’ho subito, perché il Seminario era una cosa per certi versi feroce… Però sono riuscito a distinguere sempre quello che qualcuno proclamava o diceva e i limiti umani. Forse questo mi ha salvato: saper leggere al di là di quello che uno dice o di quello che rappresenta. C’era un vecchio rettore che adesso è morto: io avevo intuito fin da ragazzo che era un timido e quindi quella sua aggressività, quella sua rigidità era una cosa personale sua. Ho incontrato pure cattiveria vera, violenza…
Ma non ti sei sentito un po’ derubato della tua infanzia, della tua adolescenza “normale”?
No, perché non mi sono sottomesso.
Quindi sei stato sempre tu anche da “fricu” in Seminario, insomma! Sei stato un rompiscatole pure là!
So’ pijato schiaffi fino a diciott’anni! (ride) Allora menava tutti!
Ti sei mai pentito?
No, neppure delle scelte susseguenti, quando ho scelto di tornare a Fermo anche se avevo altre opzioni: rimanere a Roma, fare la carriera diplomatica… Mi sono detto due cose: prete ci si diventa col tempo, con l’esperienza, con l’umiltà, imparando… Negli Anni Settanta chi aveva fatto il Liceo Classico poteva fare tutto: il medico, l’avvocato…, allora eravamo in piena espansione. Io, facendomi prete, mi sono detto che era una cosa bella, l’ho vista sempre come una cosa nobile, quindi mi sentivo quasi in debito, ero un privilegiato più che un sacrificato.
Poi hai incontrato Don Franco…
Sì, prima già da seminarista, poi non so se le mie scelte successive sono dipese dall’educazione di mia madre : questo stare accanto agli altri, alla sofferenza, l’ho vissuto proprio dalla prima infanzia. Mia madre aiutava tutti, non era bigotta, era una donna molto semplice, ma con principi sani, quindi sono cresciuto con questa disponibilità e naturalmente dovunque stai puoi fare bene, dare soddisfazione alla tua vita… Non sono né un flagellato né un flagellante e neppure un umiliato. Anzi, in alcuni momenti dico che ho avuto pure troppo.
Quindi, è un bilancio più che positivo quello della tua vita.
Sì, perché dalla vita ho avuto quello che altri non hanno avuto.
Perché hai sentito il bisogno di “scriverti”?
Per la verità è stato l’editore. Dopo la pubblicazione del mio primo libro, l’editore che conosceva vagamente Capodarco ha detto: tu hai fatto una vita strana, tanti mestieri, hai studiato diritto, sei parroco, la Comunità, una vita movimentata… Per la verità, non l’ho ritenuta una vita movimentata, ho fatto quello che mi è capitato di fare. Insomma, ha insistito tanto perché scrivessi questo libro e mi ha suggerito di non farlo intimista, ma di considerare che ho attraversato trenta o quarant’anni anche della storia d’Italia, per lo meno quella del Clero, (perché nel ’68 è scoppiata la contestazione , ma anche una certa ribellione ecclesiastica), poi ho vissuto il post-Concilio, poi ho attraversato e conosciuto l’Italia, sono andato in giro per il mondo, sono diventato parroco di campagna… Allora ho scritto, ma non solo di me, ma di gente che ho incontrato, dal più disperato che ho seppellito una settimana fa fino a Prodi, D’Alema, ministri, governatori, giornalisti, Mentana, Gad Lerner… Insomma, se uno vuole dare senso alla propria vita può incontrare chiunque, sono persone come noi.
La prospettiva?
Quella di sapere invecchiare , perché quando uno invecchia deve essere utile e non ingombrante!
Quindi ti auguri di continuare ad essere gagliardo fino alla fine!
No, di non avere la pretesa di essere l’unico al mondo e quindi di non impedire che altra gente si faccia avanti, cresca. Insomma, di stare attento a non esagerare, a non stare sempre tra i piedi, comunque la giornata sta andando al tramonto e bisogna averne coscienza, mai diventare un ostacolo a che la vita continui.
Facendo le corna, dunque hai già preparato un tuo successore?
Ci sto pensando, perché è un lavoro da fare in gruppo, quindi è iniziata questa fase di passaggio aiutando e continuando ad aiutare. Io cerco qualcuno che abbia voglia di imparare perché quando io ho cominciato ero imbranato, venivo da un piccolo villaggio della periferia del mondo (Campofilone) e ho imparato. La mia preparazione era più di metodo che di contenuto, mi sono trovato a fare anche mestieri che non avrei mai pensato. Tutti mi dicono “tu sei un manager”, ma la prima volta che sono andato in Banca ho sbagliato palazzo e sono andato alle Poste, immagina tu che manager! Ho avuto vertenze, momenti di angoscia, gli incubi di notte… Poi, quando sono apparso sul versante nazionale ho fatto per sette/otto anni il “chierichetto” a Don Ciotti perché la comunicazione non la conoscevo, per me certi personaggi erano irraggiungibili… Sono stato lì a imparare e imparando poi uno diventa autonomo.
Tentazioni?
Quella del potere che però ho rifiutato, della celebrità, della tivvù, dell’essere personaggio, rincorrere l’immagine del divo. Ognuno è quello che è, devi essere te stesso nel bene e nel male e se dal Padreterno hai ricevuto dei doni ringrazialo e cerca di correggere i difetti che hai.
Che ne pensi dei “preti salottieri”?
Che entrano in un meccanismo dove sono triturati. Una volta mi contattarono da Ballarò perché volevano che intervenissi per dire cosa ne pensavo della Bossi-Fini. Poi non mi chiamarono più: quello che avrei detto non soddisfaceva evidentemente al “fare spettacolo”. Avrei dovuto essere una specie di “pupetto” messo lì, con dei limiti da rispettare, a recitare una parte… Allora perché andare a fare lo scemo in televisione solo perché poi si parli di te? C’è chi lo fa e ci ha fatto carriera…
Grazie, e cento di questi giorni, diavolo d’un prete!