Fermando l'attimo: come e perché cambia il nostro modo di raccontare attraverso le immagini

FOTOGRAFIA OGGI: UN GRANDE MEZZO DI COMUNICAZIONE

Dal “cogito ergo sum” cartesiano al “comunico e quindi sono della nostra era” il salto sembra essere stato piccolissimo, invece è stato epocale. Lo studio dei fattori della comunicazione in ogni suo aspetto, dei metalinguaggi che la sottendono, l’evoluzione dei sistemi attraverso i quali si possono comunicare idee e pensieri, hanno provocato una accelerazione del sapere che in questo secolo ha portato a una situazione simile a quella di una reazione a catena nucleare: in pratica, se viene mal moderata sono guai seri. E se rivoluzione c’è stata nella scrittura e nella lettura, anche nella meno liberale delle arti, la più giovane di tutte, ovvero della fotografia, il salto dagli inizi relativamente recenti è stato enorme. Un salto tecnico che è sotto gli occhi di tutti, e un salto di contenuti ancora più grande, conseguenza di quello tecnico.

Andiamo come di consueto per gradi: parlare oggi di dagherrotipi, di carte ad annerimento diretto, di viraggi al selenio, suona come un viaggio in un museo dove sono conservate reliquie dell’antico passato. Tutto quello di cui parliamo, però, ha al massimo 200 anni di vita, non 2000; inoltre la fotografia, dal suo apparire, ha rappresentato la rivoluzione della comunicazione figurativa, per aver inaugurato quella che Susan Sontag descrive come l’era della riproducibilità, ma trasgredendo alla regola che tutto è rivoluzionario all’inizio e via via si trasforma in una regola, non sente gli anni e continua a essere rivoluzionaria nella tecnica e nell’utilizzo. In questo ultimo campo, infatti, la trasformazione è meno palese ma molto profonda. Il rapporto tra fotografia e social network sta rivoluzionando il modo attraverso cui la fotografia riesce a comunicare idee e sensazioni: mezzo di comunicazione sempre più social, nelle mani di tanti, e non sistema elitario di comunicazione. Sempre meno professionisti dell’immagine, quindi, sapienti utilizzatori di canoni di comunicazione codificati addirittura dalla pittura, e sempre più spontanei e candidi rilevatori della realtà che incanta se saputa guardare.

Cosa è oggi dunque la fotografia? Ne più ne meno quello che era quando è nata, una meravigliosa operazione di magia: catturare la luce, o meglio un frammento di luce, nel buio di una scatola, cristallizzarla in una immagine e riportarla alla luce come vita imbalsamata per farne l’utilizzo che ciascuno crede. In realtà la realtà ha molte più dimensioni delle due della fotografia classica, ma il cervello umano si sa è una grande cosa e quello che manca ce lo mette lui: la foto evoca e il cervello ricostruisce. Fino a poco tempo fa questa magia era affidata alla sapiente alchimia di pochi e a pochi era destinata la fruizione, mentre in questa epoca che possiamo definire “dell’occhio” (come invece il ‘700 può essere definita quella “dell’orecchio”, ovvero della musica), con l’avvento dell’informatica, del computer, di Facebook, di Google, di Istagram, la fotografia è diventata un potente e veloce mezzo di comunicazione. E questo non è un male, anche se il fascino del “color seppia” o del bianco e nero d’arte a volte ci manca. Ma, a parte coloro che si limitano a fare della fotografia solo un fatto di “copia e incolla”, quelli che usano i nuovi mezzi digitali con lo stesso spirito dei grandi fotografi di una volta, riescono ancora a fare arte, con tutte le possibilità offerte dalle nuove tecnologie digitali, e soprattutto col vantaggio di poter comunicare e condividere in tempo reale con una platea infinita. E ciò è tutt’altro che un male.




LA TECNOLOGIA E L'IMMAGINE: UN PERCORSO COMUNE. LE TRASFORMAZIONI IN ATTO VISTE DALLA FOTOTECA PROVINCIALE DI FERMO

Operativa da poco più di tre anni e con sede ad Altidona, la Fototeca Provinciale di Fermo si è contraddistinta per un notevole lavoro di catalogazione e archiviazione delle opere di importanti fotografi del Fermano e non solo. Tra questi Mario Dondero, che nei mesi scorsi ha conquistato l'attenzione dei media con una meravigliosa esposizione alle Terme di Diocleziano. Determinante, per la realizzazione dell'evento romano, il contributo della stessa Fototeca (che è anche membro della neo costituita Rete fotografica delle Marche), nelle persone di Pacifico D'Ercoli, responsabile tecnico della gestione della struttura, Diego Pizi, Andrea Del Zozzo ed i tanti volontari dell'associazione Altidona Belvedere, che lo scorso anno ha festeggiato i dieci anni di attività.

“L'immagine – rimarca D'Ercoli – deve essere letta a seconda dei tempi. Occorre coerenza, perché l'evoluzione della tecnologia condiziona molto l'uso che si fa di una macchina fotografica o di uno strumento che produce immagini. Io sono stato quello che negli anni '70 ha comprato una Reflex, che diventava un oggetto di consumo, come oggi i miei figli comprano un i-phone o qualcosa di simile per scattare immagini. Se consideri che siamo partiti dalle gelatine, dai venti secondi necessari per scattare una foto, per arrivare a macchine che scattano 10-15 fotogrammi al secondo in altissima qualità. La tecnologia, in sostanza, condiziona tutto il processo di formazione dell'immagine”.

E queste trasformazioni, nel lavoro che svolgete come Fototeca provinciale, cosa hanno comportato? “Hanno comportato qualche dubbio e incertezza su come lavorare nella riproduzione della fotografia. Considera che oggi noi lavoriamo su un patrimonio di fotografie come quello di Mario Dondero con degli scanner che non sono più in produzione. E questo fa riflettere. La tecnologia offerta dalle industrie a volte non è adeguata alle esigenze di una struttura come la nostra”.

Insieme alla tecnologia, si è incrementato il numero di chi scatta immagini, così come quello di partecipanti alle esposizioni fotografiche. “Da un lato ci sono strumenti, anche economici, che permettono di fare delle buone immagini. Dall'altro però c'è necessità di conoscenza, c'è voglia di sapere. Così, i corsi sono frequentati e sono molto richiesti. Grazie alla fotografia di massa è rinato il bisogno di conoscenza intorno alla fotografia”.

E in questo mondo che cambia continuamente, quale contributo sentite di poter dare, ovviamente se sostenuti in maniera adeguata dalle istituzioni locali? “Lo stesso contributo che può dare un libro di storia, cioè dare quella cultura fotografica che è alla base dell'utilizzo contemporaneo della macchina. La cultura che emerge dalla fotografia storica ti fa riflettere su come inquadrare e su come catturare l'immagine”.




PRIMA UNA PASSIONE, POI UN LAVORO. GIANLUCA ANTOGNOZZI: UNA VITA TRA GLI SCATTI

Gianluca Antognozzi la passione per la fotografia ce l'ha nel sangue. E non poteva essere altrimenti, cresciuto nello studio fotografico che il padre Graziano ha aperto a Montegiorgio nel 1960. Completati gli studi e svolto il servizio militare, ha deciso che quell'ambiente a lui familiare fin da piccolo, fatto di luci, scatti e immagini, sarebbe diventato il suo lavoro. “Sono cresciuto respirando fotografia nell'aria. Mi sono avvicinato alla professione, prima curiosando e scoprendo, poi imparando. Ma la passione l'ho sempre avuta: quello del fotografo, come per altre professioni artistiche, nasce come una passione e solo in un secondo momento diventa un lavoro”.

Negli anni il lavoro del fotografo si è molto trasformato, grazie o a causa delle innovazioni tecniche e tecnologiche. “Il nostro è sempre stato uno studio 'completo', nel quale si seguivano tutte le fasi della produzione fotografica: dalla ripresa, allo sviluppo, alla stampa. Le innovazioni hanno riguardato e continuano a riguardare tutti questi aspetti e noi ci siamo adeguati, ricercando e aggiornandoci su nuove tecniche e nuovi prodotti. Il passaggio dall’analogico al digitale è stata senza dubbio la trasformazione più significativa. Da un punto di vista tecnico, il lavoro è cambiato completamente: mentre prima per avere una foto in mano era necessario parecchio tempo, ora le procedure si sono molto velocizzate”.

C'è chi, nell'uso di strumenti tecnologici, vede un'evoluzione della fotografia e chi, invece, ritiene che si stia perdendo il vero senso del fotografare. Tu da che parte stai? “Penso che dipenda dall’approccio con cui si lavora. Il digitale ha pregi e difetti: è vero che permette di vedere una foto subito dopo averla scattata, senza doverla stampare, ma fare una bella foto dipende dall'immagine che il fotografo ha in mente e non dal mezzo che usa per realizzarla. Oggi tutti possono scattare foto, con mezzi molto diversi. Si fanno tantissimi scatti: tante immagini ma poche fotografie. La differenza sta nell'emozione che uno scatto riesce a trasmettere e la bravura di un fotografo sta proprio in questo”.

Che periodo sta vivendo il settore? “Il nostro è un lavoro 'traumatizzato' dalla crisi, una crisi che ha colpito tutte le professioni ma soprattutto quelle non 'indispensabili'. Quando le cose vanno bene, ci si può permettere di togliersi qualche soddisfazione, ma quando vanno male si guarda all'essenziale. Da questo punto di vista la fotografia è qualcosa di cui si può fare a meno”.

Come si affrontano queste difficoltà? “Diversificando i servizi. Lo studio di un fotografo sta diventando sempre più un 'centro servizi' in cui si cerca di intercettare i gusti della clientela. In questo periodo stiamo lavorando molto con i gadget: portachiavi, cuscini, magliette, puzzle con immagini fotografiche impresse. In studio, oltre a ritratti e servizi fotografici, stampiamo e ricostruiamo fotografie. La fotografia rimane l'attività principale, ma cerchiamo di diversificare il più possibile l’offerta”.

Quanto conta la pubblicità nel lavoro di un fotografo? “Farsi conoscere è fondamentale per lavorare in questo campo. Il passaparola rimane il mezzo più efficace. Spesso la pubblicità resta fine a se stessa, mentre chi ha usufruito di un servizio e ne è rimasto soddisfatto sparge volentieri la voce. Un buon lavoro fatto è la migliore pubblicità”. Cos'è per te la fotografia? “E' l’attimo, quella frazione di secondo, diversa dalla precedente e dalla successiva, che ti permette di trasmettere un'emozione. Puoi fare tanti scatti senza che nessuno sia in grado di emozionare e puoi farne solo uno, che è quello giusto. La differenza sta nell'anima del fotografo. Per fotografare ci vuole l'anima”.




INSEGNARE FOTOGRAFIA. LE ESPERIENZE DEL FOTOCINECLUB FERMO E DELLA PETITE MAISON DES SONS ET LUMIERIES

Parlando di fotografia, nel Fermano, il riferimento al Fotocineclub e alla Petite Maison des Sons et Lumières è imprescindibile. Due realtà che negli anni si sono caratterizzate per un'intensa attività legata all'ottava arte. Il Fotocineclub nel 2011 ha festeggiato i cinquant'anni di attività. Lì sono passati, lasciando il loro indelebile segno, fotografi del calibro di Luigi Crocenzi, Vincenzo Nasini, Eriberto Guidi, Raffaele Gasparrini e Mario Giacomelli. Lì è nato il racconto fotografico che ha introdotto un modo nuovo di pensare e di fare fotografia, non più condizionato solo dall'estetica.

“Chi conosce la storia della fotografia – dicono i componenti del direttivo – sa che a Fermo c'è stata e continua ad esserci una delle realtà più importanti del settore. Nei primi anni di attività, entrare nel Fotocineclub era un onore e un motivo di vanto. Oggi le cose sono cambiate e notiamo un allontanamento, soprattutto da parte dei giovani, troppo sicuri di loro stessi e non sempre disposti a vedere criticate le foto che realizzano”.

La Petite Maison è nata a Fermo vent'anni fa, sulla scia delle “piccole case di luci e suoni” sorte in Francia ai primi del '900. “L'intento – spiega il fondatore ed attuale direttore Danilo Cognigni – era di farne un centro indipendente di ricerca e di studio nel quale si insegnasse l'approccio artistico alla fotografia”. Tra corsi, mostre e conferenze si arriva al 2010, quando per la Petite Maison arriva il momento di fare il salto di qualità.

“Dopo 15 anni di studio e ricerca – dice Cognigni – sentivamo il bisogno di aprirci al territorio. Abbiamo così cercato un Comune e un luogo che ci consentissero di creare un vero polo di studio. Li abbiamo trovati a Porto Sant'Elpidio che ci ha messo a disposizione alcuni locali di Villa Baruchello. Nel 2010 abbiamo sottoscritto un protocollo di intenti con l'Assessorato alla Cultura e da lì la nostra attività è ripartita con più vigore e ad oggi la Petite Maison conta quasi 1.300 associati”.




UN SOCIAL NETWORK PER GUARDARE (E CAPIRE IL MONDO). INSTAGRAM RACCONTATO DA ILARIA BARBOTTI

“Instagram Marketing” è un libro edito da Hoepli e pensato per chi usa Instagram, senza conoscere a fondo le dinamiche di relazione e community di questo social network. Così come è pensato per chi non lo usa affatto, ma vuole capirne importanza e potenzialità. Sono pagine piene di consigli, spunti, idee, case hystories nazionali e internazionali di aziende ed enti di turismo che hanno capito come presenziare quello che è, oggi, il più importante ed esteso social media visivo. L'autrice è Ilaria Barbotti, marchigiana classe 1983, fondatrice nel 2011 della prima – e unica, tiene a sottolineare – community di Instagramers Italia, parte integrante del gruppo internazionale Instagramers. Una community che è cresciuta esponenzialmente, fino a diventare anche associazione (Igersitalia).

I social network hanno modificato non solo l'utilizzo dell'immagine ma anche il suo significato, oltre che la sua capacità di penetrazione nell'immaginario collettivo. “Sono assolutamente d’accordo e aggiungo che oggi Instagram, e in generale la fotografia social, è diventata anche un fortissimo mezzo di comunicazione, forse il più forte, perché oltre ad arrivare subito e al mondo intero connesso on line, permette anche di raccontare live – mentre sta succedendo – un evento. E’ divenuto così anche il principale strumento di reportage e di flash news utilizzato dalla CNN, ma anche da chiunque viva un evento straordinario (negativo o positivo) e può raccontarlo senza nessun vincolo o censura: esempi come la rivolta a Wall Street e l’uragano Sandy ce lo dimostrano. Qui spesso arrivava prima la fotografia del malcapitato presente in loco (via Instagram) che quella dei giornalisti”.

Instagram: diamo i numeri. “Instagram è il primo social network fotografico mobile: conta oggi 300 milioni di utenti iscritti al mondo, superando anche Twitter. E’ il social che è cresciuto più velocemente e che continua a crescere con segnale positivo e a due cifre. In Italia il fenomeno è molto sentito perché qui è nata e cresciuta la principale community online Instagram: Instagramers Italia, parte del network internazionale Instagramers (nato in Spagna) che conta 400 gruppi locali in tutto il mondo. Instagramers (Igers) Italia è nata nell'aprile 2011 da una mia idea. Il network nazionale italiano raggruppa oltre 60 community locali in tutte le regioni d'Italia. Tra le regioni più attive e seguite troviamo Toscana, Sardegna e Marche. Tutte le community insieme raggiungono gli oltre 400.000 contatti social. Ad oggi sono stati organizzati oltre 150 challenge e tantissimi eventi nei territori”.

Perché piace così tanto? E fino a dove si spingono le sue potenzialità? “Instagram piace perché è semplice e veloce sia da usare che da capire. La fotografia non ha bisogno di spiegazioni e parole e, quindi, viene subito compresa e apprezzata. Le potenzialità di questa piattaforma sono ancora molte: in Italia si conosce e si usa ancora molto poco e quando lo si fa si pensa a progetti nati per altre piattaforme, che vengono adattati non sempre nel migliore dei modi. Se pensate che con una sola foto posso raggiungere potenzialmente milioni di persone nel mondo… fin dove arrivano le potenzialità?”.

Attraverso la rete, le immagini diventano sempre più strumento imprescindibile di promozione, turistica e commerciale. “Fotografia è sinonimo di viaggio, da sempre. Le foto che hanno più successo su Instagram sono quelle di paesaggi e di viaggio. Per la promozione turistica Instagram e le community in Italia hanno svolto e svolgono ad oggi un importante lavoro di supporto per enti turismo ma anche tour operator, hotel e chi si occupa di food. Instagram è oggi uno strumento indispensabile per chi fa destination marketing, che coinvolge ogni volta milioni di persona col solo canale Instagram. Per i brand è la stessa cosa. Moda, vino, automotive: sono questi i settori che più di altri attivano campagne e attività digitali interessanti su Instagram. Nel libro 'Instagram Marketing' troverete tanti spunti interessanti da cui prendere ispirazione”.

Quindi perché è importante leggere "Instagram Marketing"? “Come detto, il libro è pieno di consigli, case study di aziende e enti turismo internazionali che hanno davvero fatto la differenza su questo social, sviluppando progetti di alto livello e molto innovativi. Il consiglio è di prenderlo come un libro che apre la strada alla vostra esperienza su Instagram, con idee e impressioni di chi dal 2011 ci lavora con approccio Marketing e con la leggerezza che contraddistingue i bei progetti nei social media”.




LU RSUMIJU: QUANNO LU STUDIU DE LU FOTOGRAFU A TE METTEA SOGGEZIO'

Ma quala “fotografia”! ‘Na ‘ota minga je sse dicìa cuscì, je sse dicìa: “lu rsumìju”. E quesso la dice longa: ad’era ‘na cosa che eri tu, ma non eri tu, ‘nzomma, te rsumijava e basta. Ci stava armeno ‘na ‘ota, ne la vita, che tutti, pure li contadì, u’ jornu pijava lu coraggiu a quattro mà comme se duvìa jì a lu vallu de Corte, se rvistìa a festa e java a fasse lu rsumiju. Pe’ la pòra jende era un fattu straordinariu, unicu, magara justo quanno te sposavi. E ‘llora putìa capità che Bastià dicéa a Marì: “O Marì, rmettete lu vistitu vònu e jemo a facce fà lu rsumiju!”, e a Marì quasci je pijava u’ stravasu pe’ l’emozio’. Comungue, vistitu vònu e via, verzu lu paese più vicinu, e tande ‘ote solo quillu era lu viaggiu de nozze: jì a fasse lu rsumiju! ‘Ppena ‘bboccavi, già lu studiu de lu fotografu a te mettéa soggezio’: scuru, misteriosu, paréa l’antru de u’ sdrégo’. E dopo che timidu gorbìttu de toscia, visto che non ci stava nisciù, lu sdrégo’ ‘rriava pe’ daéro, sbuchènne comme un fantasma de la porta de ‘n’atra càmmara loco ffiango, ‘ngora più scura: pallidu, rvistitu de niru, co’ ‘na scrocca a fioccu ‘ttorno lu collu de la camiscia vianga. Praticamende un vambìru, però tuttu cirimoniùsu e sinza li denti ‘gguzzi.

Quann’era sindito che vulìi lu rsumiju, te facéa ‘bboccà porbio drento ‘lla càmmara misteriosa e scura e lòco, se ghià te cacavi sotto, ciavéi voja de fugghiatte via. ‘Ppena l’occhiu se ‘bbituava a lo scuro, piano piano cuminciavi a vedé ‘na caterva de robba ‘mmucchiata: tutti cartello’ pitturati co’ panorami, archi, fiuri e foje… O puramente, séje, portrone, divanitti, colonnette, valaustre… Tando che a Bastià e Marì je viniva pénzato che era sbajato postu, che era jìti a finì su lu magazzé de u’ “robbivecchi, donneee!”. Po’, vedéa “lu mostru”: u’ scattolo’ de legno co’ tre zambe, u’ stracciu che je pennéa derète e davanti ‘na sorta d’occhiu che te fissava malignu, prontu a frecatte l’anima. E lòco, ce voléa a strégne le chiappe se non voléj cacàtte sotto pe’ daéro. Po’ lu sdrego’ te spiegava che quella era la mmachina pe’ fà li rsumìji e che tutta ‘lla robba servéa pe’ lu “sfonnu”.

Lu penzieru de Vastià e Marì era l’istessu: “Che gorbu ce vòle sfonnà ‘ssu morammazzatu?!”. Ma po’, dopo che lu sdrego’ j’era spiegato, cuminciava la parte difficile: “Marì, che dici? Va vè quistu co’ la cambagna?” - “Ma vanne ‘mbo’, Vastià, ghià ce stimo tutti li sandi jorni, su la cambagna, che me scappa dall’occhi…! Vojo checco’ de più ‘ristocraticu!”. E tira e molla e molla e tira, a la fine se ‘rriàva a un accordu: essa a sedé su ‘na bella séja andìca; issu in pè, de fiangu, co’ un bracciu ‘ppogghiatu a ‘na colonnina co’ lu capitellu; derèto, un arcu fioritu ‘ffacciatu su un giardinu che mango quillu de lu Re Sole; da la parte de éssa, la statua de un angiulittu co’ li voccoli… ‘Nzomma, de tutto e de più, perché “quanno ce rcapita più, Vastià?”. Po’, lu sdrégo’ te facéa mette in posa: e jìrete de qqua, e jìrete de llà, dritti co’ le spalle, ‘mmocco’ de profilu, no, troppo, la mà ‘mmocco’ più avandi, li pè più vicini, lu sguardu drento l’occhiu (malignu!) de la mmachina,… fermi cuscì! A la fine, te paréa che t’era pijiato ‘na paràlise!

Ma la parte difficile dovéa ‘ngora ‘rrià: ‘na ‘ota che lu sdrégo’ era soddisfattu, dovéj da statte fittu e senza tirà lu fiatu finènte a quanno te lo dicìa issu. Po’, lu gran finale: lu sdrégo’ java derète la mmachina, ficcava la testa sotto ‘llu stracciu a pennolo’, co’ ‘na mana tenéa ato un fregnu a paletta e co’ quill’atra ‘na spèce de peretta… Eppo’, cattìu: “Fermi cuscì e rténéte lu fiatu… Uno, due… e tre!”. Ssshhhflàshete! U’ llambu co’ ‘na sfumarata janga che te facéa spirità! Lu sdrégo’ scappava de fora e ‘nnunciava trionfande: “Fatto!”. Ma Marì e Vastià rmanéa ‘ngora fissi comme stoccafissi, ‘ché ‘llu lambu e ‘lla fumèra ‘na paràlise a je l’era fatta vinì pe’ daéro! Lu risurtatu de tutta ‘ssa ‘vvéndura? Lu “rsumijiu”, ‘ppundo. Cioè, ‘na cosa che eri tu, ma non eri tu: co’ la paràlise, l’occhiu spiritatu e… lu jardinu de lu Re Sole a ‘pposto de lu cambu de ‘nzalata!



A cura di Daniele Maiani, Andrea Braconi, Francesca Pasquali, Loredana Tomassini

Ultima modifica il Mercoledì, 08 Aprile 2015 09:48

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