Viaggio nella storia

La "rovina" ai rovinati

Con una ciclicità degna del concetto di “nemesi”, si ritorna a parlare della conservazione del patrimonio storico e culturale. O forse sarebbe meglio parlare di “corsi e ricorsi storici”, visti i lassi di tempo che intercorrono tra un risveglio di interesse e l’altro circa questo argomento. E capita che tra un “corso” e un “ricorso” spesso passino svariatissimi lustri. Questa terra trasuda storia e reperti quasi da ogni zolla del suo territorio (specie quando si mette mano alla realizzazione di mostri di cemento, magari, chissà, qualche nuovo ipermercato quasi nel cuore della città…), ma spesso e volentieri si dimentica o, peggio, si trascurano colpevolmente il salvataggio e la cura di questi tesori che, quando non vengono allegramente e velocemente passati sotto le ruspe per non vedersi bloccare i lavori da qualche pignola Soprintendenza, potrebbero essere testimonianze di un fantastico passato di Storia nonché fonte di attrazione per turisti e studiosi e, dunque, di crescita culturale ed economica. Sic transit gloria mundi. Ma perché? Che domanda, il ritornello è sempre quello: mancano i fondi, la pecunia, è questo il “mantra” che da anni viene ripetuto da amministratori e responsabili delle Sovraintendenze alle richieste di intervento sul patrimonio storico che, in “alcuni” casi giace in stato di perfetto abbandono. Sarà vero? Quel che è certo è che alla Cultura i nostri pubblici bilanci dedicano circa un inverosimile 1%. Poi c’è la Sanità che si pappa quasi tutto, e il resto si disperde spesso in rivoli di iniziative del tipo “panem et circenses”, così il popolo bue si diverte e se ne sta calmìno. Dal che si evince che evidentemente le dinamiche della vita umana in bilico tra passato e futuro pesano sulle scelte che si fanno in questo campo. Qual è la maligna insinuazione? Ipotizziamo: il passato, per sua intrinseca definizione, deve essere “coperto” dal tempo per poi poterlo riscoprire; e se la riscoperta non c’è potrebbe voler dire che deve rimanere ancora occultato per dare la priorità ad operazioni più nazional-popolari e portatrici di voti... Peccato, perché “fare archeologia”, ovvero dedicarsi seriamente alla valorizzazione di certi patrimoni, è come compiere operazioni magiche: si fa rivivere quello che aveva smesso di vivere, si soffia nuovo “spirto vitale” in ciò che solo apparentemente appare morto. Supponiamo che lo si faccia, seppure con una sorta di fotografia tridimensionale, una “cristallizzazione” del reperto, del manufatto, del fabbricato, dissepolti dal passato e riproiettati nel presente: per mezzo di musei, parchi archeologici, mostre ed esposizioni. Niente non sarebbe e, seppur in minima parte, qualcosina in questo senso si fa: attraverso queste strutture, vere e proprie macchine del tempo, il passato riprende forma, riemergono antiche radici, le nostre. Pensate che manna per lo studio, l’arricchimento culturale di tutti, l’incremento del Bello e, perché no?, per l’attrattiva turistica. L’inghippo sta nel fatto che, comunque, troppo spesso tutto ciò rimanga solo nel mondo dei sogni: tanti, troppi reperti giacciono abbandonati, coperti da muschi e licheni, abbandonati alle intemperie o rinchiusi in antri oscuri, invisibili, intoccabili, inaccessibili persino agli studiosi. Ma non ai topi che, siamo certi, apprezzano e benedicono la famosa “mancanza di fondi”, che permette loro una vita beata nei quartieri di lusso dei manufatti preziosi dei nostri antenati. In fondo anche questa è nemesi, ad ognuno le sue rovine: ai topi quelle dei nostri avi, a noi quelle impersonate da chi della Cultura non importa un cippo, o una stele, ma comunque trova il modo di mangiarci sopra.

Daniele Maiani



Dalla storia la chiave per capire il presente

Argomento archeologia. Per saperne di più l’ente di riferimento è la Soprintendenza archeologia, belle arti e paesaggio delle Marche, ente preposto dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali alla tutela e alla valorizzazione del nostro patrimonio culturale e paesaggistico. Parliamo con il direttore, l’architetto Carlo Birrozzi (al centro nella foto) per sapere innanzitutto quali sono le attività che svolge la Soprintendenza per valorizzare il grande patrimonio archeologico del Fermano e delle Marche in generale “Il materiale è tanto, continui sono i ritrovamenti e le scoperte – spiega il direttore -. Stiamo lavorando con la Regione e con le Università per approfondire gli studi e per creare una rete di valorizzazione al fine di garantire un accesso constante alle aree archeologiche nel corso dell’anno. Laddove non sarà possibile avere dei presidi fissi, daremo la possibilità di prenotare visite guidate in giornate stabilite consentendo così a chiunque di poter conoscere a fondo il nostro patriomonio. Questo è un lavoro che dovrà essere portato a compimento per l’estate prossima”. La collettività marchigiana è consapevole di questo vasto patrimonio e delle possibili implicazioni turistiche ed economiche? “Su questo aspetto c’è molto da fare. Sicuramente le persone si rendono conto che le amministrazioni lavorano e studiano, poi però manca un apparato di supporto che permetta la capillare diffusione delle informazioni. Stiamo lavorando alla realizzazione di guide per tutti i siti archeologici, al fine di creare documentazione che sia disponibile e di facile reperimento soprattutto perché il materiale attuale è datato. Siamo pochi ma stiamo mobilitando tutte le forze attive in modo che le aree archeologiche, perlomeno quelle accessibili, abbiamo un apparato didattico utile al fine di diffondere informazioni e creare interesse. Più le persone sono informate più sono consapevoli e ti aiutano a difendere qualcosa che sentono vicino e prezioso”. Accennava al fatto che il personale a vostra disposizione è esiguo. I fondi sono sufficienti? “No, servirebbe un investimento milionario soprattutto per poter portare le nostre aree archeologiche ad un livello tale da poter essere valorizzate appieno, apprezzate, capite e vissute. Il filosofo Giorgio Agamben sostiene che l’archeologia porta alla comprensione della società contemporanea, perché senza gli strumenti della storia e dell’interpretazione della storia non hai la chiave per capire il presente. Questo è il primo dato fondamentale. In secondo luogo è certo che il fattore turistico che verrebbe generato da un forte investimento sul patrimonio archeologico avrebbe ricadute positive sul tessuto economico: le persone che visitano le Marche devono trovare un’organizzazione capace di coinvolgerle nel conoscere ed apprezzare la ricchezza del territorio. Non possono venire da noi e non poter vedere le aree archeologiche ”. Che ruolo possono giocare i privati? “Un ruolo fondamentale. Abbiamo anche strumenti normativi che ci consentono di realizzare questa sinergia, come l’art bonus. Anche qui: più si rendono le aree accessibili più si riescono a sensibilizzare gli imprenditori locali a destinare risorse, non solo economiche, ma anche di coinvolgimento della comunità, attraverso, ad esempio, l’organizzazione di visite guidate destinate alle attività produttive, alle realtà industriali. Si deve stabilire un movimento comune intorno al patrimonio. Ci si deve rivolgere non soltanto chiedendo soldi. Il coinvolgimento deve avvenire a tutto tondo, capire che anche la scelta delle aree destinate alle attività industriali deve essere verificata con le esigenze di tutela e di valorizzazione del paesaggio. Oggigiorno abbiamo intasato quasi tutte le valli e i fondovalle; il discorso va affrontato con intelligenza perché la ricchezza di alcuni non diventi un problema per altri. Questo è un lavoro che abbiamo sempre svolto con continuità e che vorrei strutturare ancor meglio con il supporto delle università e delle altre forze che lavorano sul territorio. I tavoli di confronto con la Regione sono stati già avviati”. Ad oggi, con quello che avete a disposizione, è meglio scavare o studiare e valorizzare ciò che è già disponibile nei magazzini? “Sono sempre un po’ restio a far aprire nuovi fronti di ricerca che poi vanno gestiti: quello che viene fuori dal terreno è importante, ci dà nuove indicazioni ma poi deve essere analizzato a fondo. I reperti devono essere restaurati e trattati in modo tale da poter essere conservati e vanno gestite le aree archeologiche che non possono essere lasciate all’aperto senza cura. Aprire nuovi fronti di indagine è molto importante ma seguendo le dovute cautele. Prima dello scavo è preferibile attuare tutte quelle forme di conoscenza che si possono avere senza nessun movimento di terra, partendo quindi dalle foto aeree, dalle indagini geomagnetiche che ci consentono di capire se ci sono delle strutture sotterranee senza movimentarle. Conoscere il luogo e la sua storia, tutelarlo per poi andare a scavare quando saremo pronti”.

Alessandro Sabbatini



Falerone e la città sepolta

L’esplorazione del passato è sempre stato uno dei più irresistibili desideri dell’uomo. Una ricerca instancabile la sua, un’osservazione attenta e continua tanto che portò nel 1777 per volere di Pio VI alla prima campagna di scavi nella frazione Piane di Falerone, sulla sinistra del fiume Tenna, a circa 2 km dall’ odierno centro di Falerone. Dalla fine del ‘700 le ricerche archeologiche si svilupparono sempre più e diversi anni dopo presero il via gli scavi dei fratelli Raffaele e Gaetano De Minicis nel 1836 che riportarono alla luce, ma mai completamente, parte della storia romana. “Nell’area archeologica il Teatro Romano è il monumento meglio conservato e fruibile – ha spiegato Eleonora Concetti dell’Associazione Minerva - tanto che a fine anno scolastico vengono effettuate proprio qui recite e saggi, mentre nei mesi di luglio e agosto prende il via la stagione teatrale. Nel corso del tempo non sono state riscontrate problematiche rilevanti o danni subiti a causa degli ultimi sismi verificatisi nel 2016 e 2017.” L’intera area archeologica può essere divisa in due parti: quella centrale risulta compromessa dall’edificazione incontrollata avvenuta a partire dagli anni Sessanta, la seconda è invece minimamente urbanizzata. “L’Associazione Minerva apre le porte dell’area archeologica in determinati giorni dell’anno: nei mesi di luglio e agosto il sabato e la domenica e nel giorno di ferragosto (ore 16-19), nel mese di settembre la domenica ore 16/19, mentre nel periodo invernale nei giorni festivi – ha proseguito dicendo Concetti -. L’utenza è diversificata ed è sempre necessaria la prenotazione per poter effettuare la visita del Teatro, che è particolarmente richiesta dalle scolaresche, dai turisti stranieri e da coloro che desiderano effettuare le foto matrimoniali.” L’area è davvero molto vasta poiché comprende oltre al Teatro anche l’Anfiteatro del quale resta però solo il muro perimetrale esterno e la parte interna dell’anfiteatro la quale non è visitabile poiché proprietà privata. “Ci sarebbe ancora molto da scoprire – ha spiegato la presidentessa dell’Associazione Minerva, Lea Paolini - qualcosa è già stato individuato e altro lo si deduce. Probabilmente un’intera città con le terme maschili e le domus, ma tutto ciò è sommerso e probabilmente lo sarà per sempre. In primis mancano i finanziamenti e la seconda motivazione si lega al discorso della proprietà privata. I confini dell’Urbs sono stati già individuati e riportarne alla luce i reperti significherebbe chiudere una strada comunale ed intervenire su spazi abitati. E’ questa la parte ferma della ricerca archeologica. Falerone non è una zona come Urbisaglia o Monte Rinaldo in cui l’area dedicata agli scavi è isolata da tutto il resto e dunque non già integrata nel paese. C’è l’interesse per il futuro – ha concluso la presidentessa - d’intervenire non tanto sul Teatro come monumento storico, bensì sulla parte che definisce la vera fruibilità dell’area. Il progetto infatti prevede la messa a nuovo della rete elettrica, quella idrica e l’acquisto di un pezzo di terra per accedere al Teatro. Purtroppo per questioni burocratiche è ancora tutto in stallo”.

Federica Balestrini



Appuntamenti con la storia

Il Teatro Romano di Falerone sarà prossimamente la splendida location di due importanti appuntamenti. Sabato 4 agosto, all’interno della rassegna regionale TAU (Teatri Antichi Uniti), l’attore Ettore Bassi interpreterà la commedia “Pseudolo” di Tito Maccio Plauto, regia di Cristiano Roccamo. Cicerone ci racconta che Plauto “si divertiva” (gaudebat) in vecchiaia nel comporre Pseudolus, rappresentata per la prima volta nel 191 a.C. quando Plauto aveva circa sessant’anni. Lo spettacolo avrà inizio alle ore 21,30, ma già alle 19,30 sarà possibile partecipare alla visita guidata al Teatro Romano (posti limitati, prenotazione consigliata ai numeri 071.2075880 – 349.1941092). Il 17 agosto, alle 21,30, sarà protagonista lo storico e scrittore Stefano Conti che, sul palco del Teatro Romano, darà vita ad uno spettacolo (ad ingresso gratuito) a metà tra storia e giallo, archeologia e mistero in cui utilizzerà foto evocative di luoghi affascinanti, musiche e spezzoni di film, alternati a interpretazioni teatrali. I presenti saranno così condotti in una sorta di viaggio nello spazio e nel tempo, dalla Costantinopoli bizantina alla Venezia al tempo dei crociati, dall’Asia Minore romana alla Firenze rinascimentale della famiglia dei Medici. Stefano Conti, storico e docente di Storia Romana ed Epigrafia Latina all’Università di Siena, è impegnato in un tour itinerante in tutta Italia incentrato sull’affascinante figura di Flavio Claudio Giuliano, noto come l’Apostata. Imperatore romano, ma anche filosofo e scrittore, fu l’ultimo regnante dichiaratamente pagano. Informazioni al sito www.stefanoconti. org, oppure alla pagina facebook “Stefano Conti scrittore”.

Federica Balestrini



Monte Rinaldo: quando Romani e Piceni vivevano insieme

La storia che studiamo a scuola appare spesso nella sua, discutibile, semplicità: un popolo si stanzia in un territorio x, poi arriva un altro popolo più forte, lo sconfigge, lo cancella e prende il suo posto, poi ne arriva un altro, lo sconfigge, lo cancella, e vi si stabilisce e così via… Discorso generico che possiamo comprendere meglio parlando del nostro territorio e della sua storia: prima c’erano i Piceni, poi nel III secolo a.C. sono arrivati i Romani, li hanno sconfitti e hanno preso il loro posto, finché nel 476 d.C. il barbaro Odoacre ha tolto di mezzo l’ultimo imperatore d’occidente, Romolo Augustolo, e ha posto fine all’impero romano dando vita ad un regno barbarico. Questa discontinuità, netta e definitiva, ci viene spesso proposta. Ma è andata proprio così? “Scavando” nella storia, è proprio il caso di dirlo, ci rendiamo conto che i contorni sono decisamente più sfumati e che a prevalere è una certa continuità tra un passaggio e un altro. E lo scavo lo fa principalmente l’archeologo, come sta avvenendo da tre anni nell’Area Archeologica “La Cuma” di Monte Rinaldo, oggetto quest’estate, per il terzo anno consecutivo, di una campagna di scavo, documentazione e inventariazione condotta dal Dipartimento di Storia, Culture e Civiltà dell’Università di Bologna e diretta dal Prof. Enrico Giorgi. E’ un grande complesso santuariale, quello di Monte Rinaldo, risalente al III secolo a.C. e composto da un tempio e da un triportico che lo abbracciava. E poi altri ambienti che, nel corso di queste ultime missioni di scavo, stanno venendo fuori dalla terra. “L’ultimo ambiente - spiegano i giovani archeologi che lavorano sul campo – lo abbiamo trovato nel corso di questa campagna, si tratta di un edificio di età imperiale costruito sulle rovine del complesso monumentale, già abbandonato in età tardo repubblicana. Non sappiamo né l’utilizzo né la grandezza, andando avanti avremo sicuramente più informazioni”. Gli scavi hanno poi dato importanti risultati, grazie al rinvenimento di reperti che serviranno, una volta studiati a fondo, a ricostruire la storia dell’area archeologica e, dunque, la storia del nostro territorio. Già nel 2016, con l’attività di rilievo topografico e geofisico attraverso l’utilizzo di strumentazioni innovative come il laser scanner, e nel 2017 con la campagna di scavo che ha coinvolto più di venti persone tra archeologi e studenti, erano stati analizzati parecchi elementi che ci permettono di raccontare meglio l’area. Ad esempio molti reperti riportano dediche a Giove, importanti indizi che fanno propendere per il fatto che il santuario fosse dedicato al padre degli dei. Quest’estate, oltre alla conferma di questo fatto mediante il ritrovamento di altri materiali ceramici con impresso il nome di Giove (esempio “Iovei sacrum”), sono stati recuperati, sullo stesso strato, manufatti di origine picena accanto a quelli in stile romano-latino. E qui ci ricolleghiamo al discorso iniziale: i reperti sono databili al II secolo a.C., quindi a circa cento anni dopo l’annessione del Picenum da parte di Roma (268 a.C.), ma la manifattura e dunque l’arte e la cultura picena ancora sopravvivevano nell’ager fermano ormai completamente romanizzato. “Ciò - spiegano i ragazzi impegnati nello scavo - è la testimonianza che Piceni e Romani convivevano ancora nel II secolo a.C. e forse anche oltre”. Due civiltà che per un lungo tempo sono coesistite, dunque? “I cocci sono i resti della cultura materiale – interviene il Prof. Enrico Giorgi che coordina i lavori -, mangiamo, vestiamo, offriamo oggetti: è la storia intima delle persone che vivevano in quell territorio. Gli oggetti che abbiamo trovato ci attraggono particolarmente perché rispondono a due categorie che normalmente non dovrebbero stare insieme, siamo abituati a vederli in siti diversi. Da un lato ci sono delle ceramiche fatte a mano tipiche del mondo piceno; dall’altro abbiamo oggetti realizzati con una tecnologia più avanzata, a vernice nera, dei vasi che si usavano nei momenti importanti, ceramica fine da mensa o per offerte in un santuario come in questo caso: questa seconda categoria è rapportabile al mondo romano e al suo arrivo nel territorio piceno. Queste due culture, dicevamo, tecnicamente non dovrebbero stare insieme, ma qui a Monte Rinaldo stanno insieme. Questi “cocci” ci raccontano dunque una storia di inclusione tra i coloni latini che arrivano qui e i Piceni sconfitti. Roma ha vinto ma non ha distrutto quello che c’era prima: le testimonianze ceramiche ci dicono che il vincitore nella sua strategia di espansione, ha facilitato l’inclusione. Semplificando: non uccidi quelli che hai vinto e ti piazzi al posto loro, la questione è più complicata. Il Santuario di Monte Rinaldo ci racconta una storia per certi versi attuale di contaminazione culturale e di inclusione”. Le prospettive E ora che si fa? Intanto la volontà dei tre enti interessati alla campagna di scavo, ossia Comune di Monte Rinaldo, Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio delle Marche è di proseguire su questa stata anche la prossima estate, soldi permettendo, per dare continuità alle ricerche al fine di studiare a fondo un contesto ricco ed interessante. “Questa è la dimostrazione di quanto di buono si può fare quando si pongono in essere sinergie tra enti locali, enti di ricerca e Soprintendenza – spiega il sindaco di Monte Rinaldo Giammario Borroni -. Qui si sono poste in questi anni le basi per una proficua collaborazione. L’area archeologica di Monte Rinaldo è un unicum da valorizzare e la sfida più importante che si affianca a quella della ricerca è proprio la valorizzazione. Per far questo è necessario istituire un tavolo di confronto che veda le istituzioni coinvolte in maniera stabile al fine di reperire fondi sia pubblici che privati. Fondamentale poi sarà il contributo delle imprese a questo progetto, approfittando, ad esempio dello strumento dell’art bonus”. L’obiettivo, dichiarato dal lungimirante sindaco è stato condiviso con entusiasmo dal senatore e vicepresidente della Commissione Cultura al Senato Francesco Verducci e dal Consigliere regionale Francesco Giacinti, presenti alla relazione sulla campagna di scavo 2018. Sì è sottolineata la necessità che l’area archeologica della Cuma acquisisca un rilievo nazionale, usufruendo di fondi economici ben più importanti e di un titolo che consentirebbe di aumentare la visibilità e l’importanza strategica del sito. Il tutto con un sicuro ritorno d’immagine e di prestigio che aprirebbe le porte ad un maggior afflusso turistico e ad un conseguente ritorno economico. L’impegno della classe politica locale c’è, almeno sulla carta. Non resta che aspettare.

Alessandro Sabbatini

Belmonte sempre più nel segno dei Piceni e dell'archeologia

14mila euro: dopo la partecipazione a un bando per l’assegnazione di risorse volte all’implementazione di musei esistenti nelle Marche, è questa la cifra concessa ai Comuni di Belmonte Piceno e Grottazzolina. Attraverso i fondi erogati, le due amministrazioni della media Valtenna hanno l’intenzione di investire sulla divulgazione del patrimonio storico-archeologico su emittenti nazionali e sulla realizzazione di un plastico di una tomba picena e manichini vestiti con tessuti e monili antichi. Inoltre altre proposte stanno prendendo forma. Come è nata la sinergia con Grottazzolina e quindi di partecipare insieme? “Una delle motivazioni principali è che a Palazzo Benedetti è presente una mostra fotografica permanente in cui sono ritratti scavi e reperti. Inoltre c’è una necropoli picena oltre ad essere un Comune limitrofo con cui già abbiamo collaborato su altri fronti, come per ciò che riguarda l’ecocentro” afferma Ivano Bascioni, sindaco di Belmonte Piceno. Quali sono le ulteriori idee che avete sul piatto in merito all’utilizzo dei fondi? “Ci sono dei progetti da definire comunque si pensa a una pubblicazione in comune dove viene raccontata la storia dell’archeologia picena, un video dedicato a entrambi i Comuni. Le riproduzioni degli oggetti piceni a cui abbiamo pensato saranno utili soprattutto alla conoscenza degli studenti, anche per capire come si poteva fondere il bronzo quando non c’erano le attuali tecnologie”. Il filone comune è dunque quello dei Piceni: a Grottazzolina, infatti, gli stessi furono inventori della ruota dotata di raggi utilizzati come ammortizzatori e della fibula, una sorta di antica fibbia, a tre bottoni. A Belmonte Piceno il Museo dei Piceni ha fatto registrare negli ultimi due anni e mezzo circa 10mila visitatori ed è proprio quest’ultimo che il sindaco Bascioni ha intenzione di ampliare. “I giorni scorsi sono tornati gli archeologi di riferimento e si sta studiando il terreno attraverso georadar e altre tecniche per individuare le zone più interessanti e quindi fare una mappatura. Gli scavi verranno aperti il 17 settembre e terminare il 30 ottobre. Ciò che verrà rinvenuto sarà portato nel museo, dopo essere stato catalogato e restaurato. Il progetto che riguarda il museo è a medio/ lungo termine: abbiamo già individuato un secondo locale più spazioso, da adeguare, in cui spostare tutto”. Avete stipulato un Patto di amicizia con i Comuni italiani di Verrucchio, Castiglione della Pescaia e Concordia Sagittaria. In cosa consiste? “Abbiamo suggellato il patto il 12 novembre 2017. Al momento prevede delle iniziative, per ora abbiamo fatto una pubblicazione insieme che si trova in tutti e quattro i musei, abbiamo partecipato uniti alla più importante fiera dedicata al turismo archeologico in Italia che si tiene a Firenze. Il 7 ottobre ci sarà una conferenza a Verrucchio, in provincia di Rimini, a cui parteciperanno tutti i Comuni del patto. Per il futuro, abbiamo ipotizzato di creare un sito internet apposito e di realizzare altre pubblicazioni e di estendere il patto anche ad altri musei di altri comuni legati all’ambra. L’iniziativa è stata coordinata dal C.I.V.I.A. della Repubblica di San Marino che studia le rotte antiche come, per l’appunto, quella della via dell’ambra”. Il Museo dei Piceni è visitabile senza prenotazione la domenica, dalle ore 16 alle 19, altri orari e altri giorni su prenotazione, telefonando al Comune, 0734.771100. Durante la Festa della Birra e della Pizza, dal 24 agosto al 2 settembre, oltre al Museo, visitabile senza prenotazione e con una guida turistica dalle ore 20 alle 22, sarà possibile visitare con l’operatrice anche la chiesa di Santa Maria in Muris, prenotando al Comune.

Silvia Ilari

Villa Romana di Campofilone, ecco il cronoprogramma

Una scoperta come quella avvenuta lo scorso ottobre a Campofilone, può cambiare le sorti di un intero territorio, a patto di riuscire a promuoverla e valorizzarla. I primi rinvenimenti emersi, riguardanti l’esistenza di una Villa Romana in zona Fontana Marina, rappresentano un unicum nell’area costiera per l’articolazione della villa in tre aree: terme, zona residenziale e zona di produzione. Trovata anche una necropoli con due tombe infantili e un’anfora in cui era stato deposto un cane di giovane età, probabilmente sacrificato. Ad occuparsi degli scavi, ora ricoperti preservare eventuali altre scoperte, è stata la cooperativa In Terras di Forlì che ha lavorato nell’area che si estende per circa 80 metri lineari. Sindaco Ercole D’Ercoli, qual è il piano? “Il nostro obiettivo è tenere la notizia viva, tanto più che secondo la Soprintendenza, verrà fuori dell’altro. Si tratta di un ritrovamento di straordinaria importanza, per il momento ci sono accordi di massima ma è necessario tenere viva l’attenzione”. Dopo l’estate, tra settembre e ottobre, il primo step sarà quello di avere una mappatura dell’area, tramite uno studio non invasivo, senza scavi, per avere un quadro d’insieme. Cosa avete in programma? “Esiste un cronoprogramma di massima - spiega il Sindaco - l’appuntamento è a dopo l’estate con i rilievi da effettuare tramite georadar, una strumentazione non invasiva, che lancia raggi laser nel sottosuolo ed è in grado d’individuare mura indicando la profondità nella quale si trovano, servirà ad avere una mappatura dell’area. Al momento non abbiamo certezze, possiamo immaginare l’estensione dell’area e ipotizzarne lo sviluppo”. Il secondo step, previsto entro la primavera 2019, riguarderà la fase dei sondaggi, sarebbe? “Scavi fisici ma non casuali per riscontrare realmente e visivamente quanto indicato dal georadar, nei punti più significativi, per perimetrare l’area della Villa, per verificare se quanto indicato dal georadar corrisponde a realtà”. Il terzo step, richiede un impegno economico importante, per gli scavi veri e propri: “Per ora, non ci sono tempistiche, cercheremo ogni strada possibile per accelerare i tempi, trovare le risorse per farlo, non è sufficiente scavare e portare alla luce i reperti, vanno anche protetti e messi in sicurezza. La fase degli scavi è sicuramente quella più importante e costosa ma sicuramente anche la più affascinante e su questo operiamo nella massima sintonia e collaborazione con la Soprintendenza di Ancona. Per quanto ci compete cercheremo ogni strada possibile nella ricerca di ingenti risorse”. Fin dall’inizio, D’Ercoli ha sempre caldeggiato il coinvolgimento degli imprenditori: “L’interesse mostrato dai privati, non solo di Campofilone ma da imprenditori del territorio per via dei ritrovamenti inerenti all’area produttiva, fa ben sperare e garantisce loro un ritorno d’immagine per i loro prodotti. Sono molte le aziende interessate e coinvolte nel progetto, un ritrovamento del genere a Campofilone, nella Valdaso, non fa altro che confermare le certezze sulla storia della valle riconosciuta per le sue eccellenze enogastronomiche”. La pluralità degli attori in campo farà buon gioco: “L’optimum sarebbe trovare la giusta integrazione fra fondi privati e pubblici. Le strade da percorrere sono molte. Attraverso l’Art Bonus ad esempio, previa redazione di un progetto, le aziende sensibili alla tematica possono aderire ottenendo sgravi fiscali anche molto significativi. Senza dimenticare il mondo accademico, ci sono infatti tante università”. Alla Soprintendenza, essendo l’organo di controllo e salvaguardia, oltre all’atto d’indirizzo, spetta l’ultima parola. “I progetti importanti – conclude - si fanno più celermente quando collaborano più soggetti, ce ne siamo accorti in questa prima fase, tra Italgas e Soprintendenza durante gli scavi. Quando l’obiettivo comune è così importante, è la soluzione migliore. L’auspicio e l’impegno da parte nostra è quello di coinvolgere, nel rispetto dei ruoli, quanti più soggetti possibili per accelerare la realizzazione del progetto di scavo che per Campofilone, vista la qualità dei reperti ritrovati, significherebbe avere un altro gioiello da mettere in mostra e offrire a turisti e visitatori”.

Serena Murri

Viaggio nella storia

La direzione è chiara: si va verso la realizzazione di un polo archeologico capace di legare a doppio filo il centro storico di Fermo, Torre di Palme e (con le dovute cautele legate ad un imprescindibile lavoro di “cucitura istituzionale”) l’intero territorio provinciale. Cuore di questa operazione Fonte Vecchia. “Il progetto di recupero è diviso in tre fasi - sottolinea l’assessore alla Cultura Francesco Trasatti -. La prima è prossima alla chiusura. La seconda era appesa ad un finanziamento della Regione, bloccato a causa del sisma e recuperato di recente. La terza, invece, è legata ai Fondi Fesr, per intenderci quelli con cui mettiamo a posto il Terminal per poi procedere su Fonte Vecchia. Di fatto c’è un cronoprogramma e ci sono i soldi, con una progettazione da fare per la seconda e per la terza fase”. Che scadenze vi siete dati? “Diciamo che, alla luce dei tantissimi impegni del 2018, di fatto ho spostato l’attenzione su questo progetto al 2019. Il mio auspicio è di fare la progettazione per la seconda e la terza, per far partire i lavori che finiranno dopo la fine del nostro mandato. Vorrei però rimettere in funzione per l’estate 2019 il cortile, che nelle mie intenzioni sarebbe destinabile ad un cinema all’aperto, anche considerato il fatto che siamo orfani di uno spazio con questa vocazione per via della chiusura della Casina delle Rose.” E cosa diventerà Fonte Vecchia? “Ci sarà da fare un progetto allestitivo, su cui all’epoca avevamo coinvolto ovviamente la Soprintendenza. Vogliamo creare un percorso unico e straordinario tra Cisterne Romane e sovrastante, uno spazio che si connoti come vero e proprio polo archeologico, pienamente accessibile anche ai disabili. Lì finiranno sia la parte di materiale archeologico che era ospitata nelle due stanze di Palazzo dei Priori, sia il vasto patrimonio che abbiamo a disposizione.” In questa chiave il polo di Torre di Palme cosa rappresenta? “Un satellite del polo centrale, che può fungere da attrattore per quella fascia di turisti che già Torre di Palme cattura, magari senza farli muovere verso il centro storico della città. Uno spazio unico ed un museo archeologico degno della città capoluogo, con una finestra, appunto, su Torre di Palme. Questo è il disegno.” Facciamo il punto proprio sulla struttura di Torre di Palme. “Da un punto di vista tecnico i lavori stanno procedendo. Hanno scoperto delle fragilità sul tetto, classici imprevisti durante la fase di cantiere. Ma la tabella di marcia va avanti e si chiuderà entro l’anno. Anche la Edison, che finanzia la parte scientifica, ha la necessità di chiudere l’investimento su queste scoperte entro l’anno. Sicuramente la prossima estate Torre di Palme si presenterà con un punto informativo e un museo, un biglietto da visita completamente nuovo integrato con la rete cittadina.” Insomma, per il turista sarà un vero e proprio viaggio nella storia di Fermo. “Certamente. Nel percorso di ristrutturazione dello spazio una parte di finanziamento è nostro, una parte potrebbe rientrare attraverso il Gal con una progettazione che stiamo perseguendo insieme ad altri Comuni. Completando tutto lo spazio, d’intesa con la Soprintendenza, verrebbe fuori un’ulteriore sala che potrebbe essere sede di piccole esposizioni del nostro patrimonio archeologico.” La città, quindi, diventa sempre più baricentro culturale del territorio provinciale. “L’archeologia é il primo settore su cui puoi sperimentare un ruolo di collaborazione e di sistema con gli altri Comuni. Molto dipenderà dalla nuova gestione della rete museale, che andrà a gara tra poco e che dovrà prevedere la capacità di intessere relazioni anche con altri siti archeologici della provincia. Dobbiamo sviluppare questa capacità di fare un po’ anche da traino per il ruolo che Fermo ricopre. Ma al di là della volontà politica, questo passerà attraverso un accordo più strutturale da parte della società che prenderà in gestione i musei.”

Andrea Braconi

La realtà virtuale nuova frontiera dell'archeologia

L’evoluzione di una app può non finire mai. Soprattutto per quello che riguarda la promozione turistica. É il punto di partenza della riflessione di Stefano Pompozzi, presidente di Marca Fermana che da qualche settimana ha lanciato uno strumento che sta riscuotendo una grande attenzione da parte di cittadini e turisti. E uno dei filoni più interessanti è proprio quello dell’archeologia. “Tra quelle azioni pilota un po’ più avanzate fatte insieme alla Politecnica attraverso il bando Gal - rimarca Pompozzi - una di queste è sui siti archeologici e la loro valorizzazione”. Concretamente, cosa farete? “All’interno dell’app le prossime aggiunte saranno l’applicazione della realtà virtuale sul Teatro Romano di Falerone e un lavoro sull’altro sito archeologico importante, La Cuma, per il quale abbiamo preso contatto con l’Università di Bologna che sta curando gli scavi e che aveva già predisposto una ricostruzione virtuale dell’area. Eviteremo così di realizzare dei doppioni”. Tempi? “Parliamo di qualche settimana.” Con quali obiettivi? “Sicuramente, come detto, la valorizzazione di quei siti. Ma la cosa più importante è legata alla nostra presenza dello scorso anno come Marca Fermana per conto della Regione Marche alla fiera del turismo archeologico a Paestum. Lì abbiamo avuto modo di vedere che se ti presenti con modelli di realtà virtuale e applicazioni digitali per assurdo sei fuori dal mercato perché ce l’hanno tutti. Invece, il sistema che stiamo sviluppando ha delle potenzialità incredibili, che presenteremo all’interno della prossima fiera a novembre, sempre a Paestum, con un convegno ad hoc”. Il territorio fermano vive una situazione feconda sul fronte dell’archeologia. “Assolutamente sì. E anche per questo la nostra app avrà per due anni una continua evoluzione di contenuti. Dopo il Rubens stiamo lavorando anche a livello pittorico su Licini a Monte Vidon Corrado, è in programma il Crivelli a Sant’Elpidio a Mare e Massa Fermana. I contenuti verranno costantemente aggiunti, anche per quello che riguarda l’archeologia: Falerone e Monte Rinaldo sono i primi due siti di cui ci occupiamo, non gli unici due. Insomma, non ci fermiamo”.

Andrea Braconi

Archeoclub d'Italia, passione per la storia

Nel 1971 nasce Archeoclub d’Italia - Onlus come Centro di Documentazione Archeologica al fine di sostenere con un impegno concreto gli studiosi e gli esperti dell’archeologia nella divulgazione della conoscenza del passato. Nello stesso anno nascono le sedi locali che hanno nel territorio comunale la loro base operativa. I volontari operano attraverso attività culturali che, da un lato risvegliano l’attenzione dei concittadini, dall’altro mettono in luce le tipicità che solo quello stesso territorio possiede promuovendolo al di fuori dei propri confini. Il fine di queste realtà è di custodire e valorizzare il nostro patrimonio archeologico, storico - artistico, architettonico e ambientale. Parliamo con Vermiglio Ricci, coordinatore regionale degli Archeoclub delle Marche. “Il nostro è un coordinamento tra oltre 20 presenze comunali che riguardano tutte le Marche, da nord a sud. Ci adoperiamo in progetti comuni, ad esempio adesso stiamo portando avanti uno studio sulle strade consolari nelle Marche, ossia Salaria e Flamina, con i vari diverticoli. Mettiamo insieme gli ultimi studi effettuati dalle varie università marchigiane e dalla Soprintendenza, testimonianze materiali, ecc. Approfondiamo dunque l’indagine storica, organizziamo conferenze di livello, diamo un contributo: la nostra opera di volontari è a disposizione degli studiosi e di tutti coloro che vogliono appassionarsi alla materia. Siamo “portatori d’acqua”, contribuiamo così ad aggiungere tasselli alla ricerca, allo studio della nostra civiltà”. Riuscite, nonostante la crisi, a portare avanti i vostri progetti? “In ambito regionale le cose vanno bene. Nelle Marche c’è entusiasmo, c’è un piacevole modo di lavorare insieme su tematiche comuni. Tutto ciò rinforza gli ormeggi dei vari centri Archeoclub, ci sentiamo coesi”. Questione giovani: riuscite a coinvolgerli? “E’ un aspetto importante che analizziamo spesso. Tra l’altro io sono anche responsabile a livello nazionale riguardo al tema “I giovani e la scuola”. Nel consiglio nazionale mi batto spesso su questo punto ma in tal senso la sede centrale, pur capendo il problema, rimane poco attiva. Siamo carenti di giovani, serve più sensibilizzazione, nonostante i tempi non siano propizi. Alcuni vengono da noi, approfondiscono argomenti, elaborano tesine e poi scompaiono. Non c’è continuità purtroppo, è un modo molto “pratico” di agire, arriviamo ad una sorta di pirateria culturale moderna: si attinge agli archivi, si scopiazza, e poi si saluta. La colpa è anche la nostra: dobbiamo fare di più per attrarli, ad esempio investendo nei laboratori didattici, attività che nella nostra sede di Cupra Marittima già realizziamo da tempo. Durante l’anno scolastico prendiamo i bambini fin dalla terza elementare e cerchiamo di innamorarli alla storia dell’uomo attraverso lo studio dei testi e la visita sul campo nei musei, nelle aree archeologiche, così da vedere, respirare, amare quello che leggono nei libri. Il seme viene quindi gettato, poi la pianta va coltivata. L’appello che voglio inviare a tutti coloro che hanno a cuore il proprio patrimonio storico e culturale è di unirsi a noi, di partecipare agli incontri, di diventare “portatori d’acqua”. Noi a Cupra, con i nostri pochi mezzi, siamo riusciti a metter su un museo, un parco archeologico e una biblioteca specializzata. E non è finita qui!”.

Alessandro Sabbatini

Ultima modifica il Mercoledì, 01 Agosto 2018 13:18

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