Passo dopo passo: la crisi del Distretto calzaturiero non molla ma dal territorio arrivano idee e opportunità per rilanciare il settore

SETTE PAIA DI SCARPE HO CONSUMATO... OCCORRE UNA NUOVA MENTALITA': DIVERSIFICARE PER RESISTERE

Puntuali come un orologio svizzero, anche quest’anno torniamo a parlare di settore calzaturiero: si è infatti da poco concluso il Micam e, a guardare i risultati economici, la linea già discendente degli anni passati è colata a picco. Ma se il pianto greco era prevedibile e giustificato, la reazione sorpresa no: lo sappiamo tutti che siamo sull’oceano in tempesta di una crisi economica globale che tocca tutti i settori, e quello calzaturiero non fa eccezione, specialmente in concomitanza del fatto che nazioni specializzate in articoli a basso costo hanno scatenato un arrembaggio selvaggio (vedi Cina, ma non solo). Certo, si tratta di robaccia che non ha nulla a che vedere con gli scintillanti pellami e la sapiente qualità dei nostri prodotti, ma in tempo di vacche magre la gente è costretta ad adattarsi e ad accontentarsi di scarpe che ricordano quasi quelle autarchiche di cartone e di pezza.

Naturalmente parliamo di quella che un tempo era la felice classe media e che ora non esiste quasi più: tutti livellati dalla crisi sulla soglia della povertà. Per i ricconi nessun problema, perché i ricchi lo sono sempre di più e seguitano a sfoggiare scarpe su misura o comunque di lusso: eh, sì, perché a rimetterci le penne, nel nostro settore calzaturiero, sono solo i piccoli e medi imprenditori che sfornano scarpe destinate a clientela ormai più bassa che media. Gli altri (non occorre far nomi) seguitano ad andare alla grande. Perché? Perché sono stati lungimiranti, per fare impresa non hanno lasciato quasi nulla al caso, hanno progettato negli anni, hanno fatto una politica aziendale giusta, diversificato gli investimenti facendo sempre scelte in linea con quelle dell’economia mondiale e ora (pur essendo partiti come tanti dalla botteguccia di calzolaio del padre) si trovano a guidare veri e propri imperi internazionali che continuano a navigare a vele spiegate.

Oddìo, per qualcuno può anche aver giocato il “fattore C”: prodotti giusti, incontri e testimonial giusti al momento giusto, conoscenze che contano, ma è abilità anche quella. Insomma, la ricetta è che anche nel piccolo oramai bisogna pensare in grande, specializzarsi, rischiare. E se un tempo per fare impresa si parlava di agilità di riconversione, ora si deve parlare di diversificazione, dato che tra tutti, quello della moda è il settore che più risente delle ristrettezze di una clientela che, dovendo decidere cosa tagliare per tentare di far quadrare il bilancio, comincia a ridurre le pretese e ad accontentarsi di quello che è accessibile a un portafogli sguarnito.

E, allora, Cinesi siano: i loro negozi, le loro bancarelle al mercato, l’infinita gamma di prodotti (magari anche velenosi) prolificano, stanno colonizzando l’Italia. Assieme ai Russi, spesso in odor di mafia, che l’Italia pezzo pezzo se la comprano per farci il nido. Insomma, ormai siamo come bambini che, a forza di gomme americane, lecca lecca e giocattoli si ritrovano il maialino salvadanaio con la pancia vuota, e addio sperpero. Il guaio è che, spesso, bisogna dire addio anche al necessario come, appunto un sacrosanto e bel paio di scarpe. E dal momento che viviamo in un posto dove si producono scarpe, ovvero dove una grossa fetta di economia (leggi benessere e lavoro) si basava su questo, il fatto che le scarpe non si vendono più come una volta pesa parecchio, ha un effetto deflagrante. E allora giù, tutti a piangere. E, per un habitus mentale consolidato, si cercano i colpevoli, qualcuno cui gettare la croce addosso. E allora, manzonianamente, “dalli ai politici”, incapaci e mascalzoni; e poi “dalli agli imprenditori”, quelli che, avidi di soldi e smaniosi di risparmiare sulla forza lavoro, hanno delocalizzato, hanno portato il know how all’estero, insieme ai soldi che guadagnavano in Italia, per non pagare le tasse.

In tutto questo marasma, che dire delle Associazioni di categoria? Servono a qualcosa o solo a scaldare poltrone? Mistero. Ma guardiamoci in faccia: certa gente ce l’abbiamo piazzata noi su certe poltrone, a cominciare dai politici che abbiamo eletto e continuato a votare pervicacemente. Quindi, ciò di cui ci lagniamo è l’espressione tangibile di un nostro modo di vedere (o non saper vedere) la vita, di non saper operare delle scelte perché, neppure troppo in fondo, in un certo andazzo di malaffare, di connivenze siamo tutti coinvolti, se non altro a livello etico. Tornando agli imprenditori, sarebbe auspicabile che capissero che un vecchio modo di fare impresa non paga più, che dalla Teoria della Relatività in poi 2 + 2 non fanno più 4. E oggi, più che mai, tutto è relativo. Occorre una nuova mentalità: diversificare per resistere “Sette paia di scarpe ho consumato…” (Daniele Maiani)




I GUERRIERI DELLA CALZATURA INVESTONO NEL MADE IN ITALY. PRIMI TEMPI E THOMA'S CI RACCONTANO LE DIFFICOLTA' AFFRONTATE OGNI GIORNO

Secondo gli studi condotti da Assocalzaturifici (Associazione Nazionale Calzaturifici Italiani) l'Italia è il primo produttore di calzature nell'Unione Europea, il decimo per numero di paia nel mondo e il quarto esportatore a livello mondiale, ma il secondo in termini di valore. Tali dati statistici vanno però letti considerando le numerose difficoltà che, oggi come oggi, attanagliano le aziende calzaturiere marchigiane che adottano, di volta in volta, innovative strategie per affrontare i periodi economici più bui. A tal proposito abbiamo ascoltato le voci di due ditte locali: il Calzaturificio Primi Tempi di Monte Urano e il Calzaturificio Thoma's di Ponzano di Fermo.

“Il nostro settore bambino/a, a livello nazionale e internazionale, soffre di una fortissima carenza di visibilità”, ha spiegato Geri Monaldi del Calzaturificio Primi Tempi. “Basti pensare alle tv locali che realizzano servizi televisivi inerenti il The Micam di Milano, senza però mostrare nessun redazionale dedicato al bambino. L’attenzione è incentrata solo sulla scarpa da uomo e da donna”.

Il 2014 ha presentato note positive rispetto al 2013? “Sì. Nell’ultimo anno è stata rivolta più attenzione al nostro settore rispetto al 2013, ma sostanzialmente il trend si è mantenuto di poco invariato. Di certo il Made in Italy è un vero motore di lancio, ma nonostante ciò continuo a credere che le potenzialità del settore-bambino non vengano sfruttate a pieno. La nostra è un'azienda che lavora prevalentemente per il mercato nazionale, quindi abbiamo pochi parametri per poter esprimere un giudizio”.

Quali sono i problemi che attanagliano il settore-bambino? “La crisi delle pmi-bambino è fortemente influenzata dalla scarsa visibilità offerta dai media che non ribadiscono l'importanza, soprattutto per i giovanissimi, di indossare scarpe sane e contraddistinte dal marchio Made in Italy, cioè prodotte con materiali in pelle, solettine appropriate e una cura del dettaglio che solo le nostre aziende sono in grado di fornire. Sempre più famiglie, purtroppo, soffermano la loro attenzione sul prezzo a discapito della qualità e di conseguenza si rivolgono a grandi catene che vendono prodotti di importazione e di bassissima qualità. Sarebbe opportuno informare mamme e papà dell'importanza della scarpa di qualità, far intendere che una calzatura sbagliata può creare danni irrimediabili per i loro figli”.

Qual è il possibile rimedio? “Mettere in atto campagne di sensibilizzazione anche grazie l'ausilio di medici esperti nel campo pediatrico”.

Il settore calzaturiero italiano, uno dei pilastri del “sistema moda”, conta 5.186 aziende e 78.093 addetti (dati anno 2013), un saldo commerciale da sempre attivo e rappresenta una realtà di estrema rilevanza qualitativa e quantitativa nell'economia italiana. “La Nostra è una realtà artigianale e per fronteggiare la crisi abbiamo aperto un punto outlet dove poter proporre la vendita diretta della merce, così da abbattere i costi di intermediazione”, ha raccontato Vincenzina Di Stefano del Calzaturificio Thoma's. “L'azienda, da anni, ha scelto di abbracciare una filosofia che punti alla cura dei clienti e delle loro esigenze. Ci siamo specializzati nella massima personalizzazione del prodotto e non solo a livello di materiali e modelli, ma abbiamo creato anche una linea sposo/ cerimonia sempre per uomo. Offriamo infatti la possibilità di personalizzare la scarpa al 100% al fine di rispondere a particolari esigenze come numeri piccoli, grandi e scarpe su misura”.

Il Made in Italy è davvero portatore di guadagno? “I clienti riconoscono un vero prodotto Made in Italy e continuano ad apprezzarlo nonostante la crisi. Negli ultimi dieci anni abbiamo maturato un soddisfacente mercato estero che ha scelto i nostri prodotti sia per l'artigianalità che per la qualità del Made in Italy. Non si può parlare di un grosso guadagno, ma sicuramente di un'altissima reputazione del prodotto. Confrontandoci con le altre realtà della zona, abbiamo notato che a crescere è la difficoltà ad innovare le tecnologie e il prodotto, mantenendo bassi i costi o avendo un ritorno d'investimento considerevole. Per le pmi è impensabile delocalizzare parte della produzione e, allo stesso tempo, è difficile conferire un maggiore valore al prodotto finale. Tutelando il Made in Italy sarebbe possibile riqualificare i prodotti e le aziende che, come noi, lavorano e scelgono davvero solo prodotti Italiani”.

Qual è il segreto del successo di Thoma's? “Il segreto della nostra attività consiste da sempre nel continuo ascolto dei bisogni e gusti del cliente. Abbiamo clienti fidelizzati in tutta Italia, che tornano puntualmente a reinventare i nostri prodotti con il loro stile. Mettiamo a disposizione la nostra esperienza, pari quasi a mezzo secolo, e riusciamo a creare delle vere e proprie collaborazioni per soddisfare ogni tipo di necessità”. (Federica Balestrini)



PAROLA D'ORDINE: FARE MASSA CRITICA. LA CNA TRA INTERNAZIONALIZZAZIONE E RETI D'IMPRESA

“Fare massa critica” è un concetto che riecheggia continuamente tra le stanze della sede fermana della CNA. Anche nelle considerazioni del presidente Paolo Silenzi (foto), mentre illustra come la Confederazione Nazionale dell'Artigianato e della Piccola e Media Impresa stia spingendo in un'ottica di rinnovamento per quanto riguarda l'internazionalizzazione e la formazione di reti tra le aziende.

Concretamente, come supportate gli artigiani in questa fase? “Sollecitiamo e stimoliamo a fare massa critica, creando reti volte ad ottimizzare i costi, penetrare i mercati, promuovere e valorizzare i prodotti con maggiore concretezza. Alla fine dello scorso anno si è costituita Modart, una rete formata da otto aziende che sta già sviluppando un laboratorio calendarizzato, nel quale si studiano le tematiche, le situazioni di mercato e le criticità. Abbiamo visto che l'unione fa la forza, che c'è una proposizione degli artigiani in un progetto comune. Si stanno portando avanti diversi discorsi, tra i quali l'incoming attraverso il nostro sito permanente a Villa Baruchello. E ci sono dei buyers stranieri molto interessati”.

Tra questi, chi ha manifestato il maggiore interesse? “Abbiamo avuto una delegazione cinese, ci sono stati contatti, stiamo facendo delle brochure personalizzate per il loro mercato e investiremo in siti web con l'estensione del dominio cinese, per una maggiore veicolazione nei motori di ricerca. Sono dei passi importanti, tangibili. Poi sono venuti buyers da Belgio, Israele, Giappone, e attraverso questa situazione si cerca di veicolare i prodotti sopperendo anche agli investimenti necessari. Con questo sistema, in sostanza, cerchiamo di internazionalizzare in casa”.

Avete annunciato altri seminari nel territorio. “Sì, perché questa azione serve per affrontare al meglio la situazione economica, sociale e anche politica. E' un lavoro che, nonostante il trend negativo, sta creando positività tra le aziende. E ci sta premiando”.

Nodo Micam: quello dello spostamento continuo delle date è un falso problema o no? “Secondo noi la mancanza della clientela russa – perché di questo si parla – non è dovuta allo spostamento delle date, con il Micam anticipato o posticipato di alcuni giorni. Analizzando a priori i dati sulle esportazioni verso questo mercato si evince che un calo era già avvenuto mesi prima. Però, in questo momento, la sommatoria di tanti fattori ha scatenato una situazione allarmante perché il distretto conta su questi mercati, ha investito tantissimo per conquistarli già da decenni. Forse ci siamo concentrati troppo su un unico mercato e non abbiamo, quindi, la possibilità di poter bilanciare questa carenza di commesse con altre”.

Il Jobs Act è sulla bocca di tutti. Cosa chiede la CNA al Governo? Quali tipi di interventi? “Purtroppo ci si concentra su situazioni limite, ad esempio l'articolo 18, ma occorre invece guardare al cuneo fiscale e al costo del lavoro, le vere problematiche. Pensiamo a tutte le imposte dirette o indirette alle quali siamo sottoposti, o periodicamente o virtualmente tutto l'anno attraverso iva, accise, etc. E' questo che ci attanaglia, legato ad una riduzione dei consumi e, conseguentemente, delle commesse. Per dare slancio alle imprese bisognerebbe almeno defiscalizzare: perché, ad esempio, non premiare le aziende virtuose che fanno vera internazionalizzazione? Si libererebbero risorse da utilizzare per investimenti. E gli altri Paesi ci dimostrano che defiscalizzando si dà spinta al fare impresa. Servono soprattutto meno burocratizzazione e tempi più rapidi. Pongo solo una domanda: una start up può nascere oggi e diventare operativa dopo un anno e mezzo per una serie di cavilli? L'occupazione si crea in altro modo, non ragionando sulle forme di licenziamento possibili. Le priorità, per noi, sono altre”. (Andrea Braconi)





A MILANO, PER RESTARE. LA NUOVA AVVENTURA DEL CONSORZIO ARF

Una giornata importante, quella di sabato 27 settembre. Una vera e propria ripartenza, dopo l'amara delusione di un trasloco forzato legato al caso Castagno. Proprio lì, a Casette d'Ete, dove dall'aprile 2011 al maggio di quest'anno il consorzio Artigiani Riuniti Fermano (meglio conosciuto con l'acronimo ARF) aveva sviluppato la propria attività di vendita. Con risultati importanti. Un addio non indolore, quindi, per i soci. E tanti, troppi dubbi sul futuro. Poi l'idea giusta, che torna a farti respirare: aprire un negozio nel cuore dell'economia italiana, in quella Milano dove tutto è fermento. Ed ecco uno spazio di 100 metri quadri, a pochi passi dalla Stazione Centrale.

“ARF è costituito da artigiani provenienti da Monte Urano, Sant'Elpidio a Mare, Porto Sant'Elpidio, Civitanova Marche e Montegranaro. Ai cinque soci – spiega Francesco Cirilli – in quest'avventura milanese si sono aggregate altre cinque aziende, convinte che la nostra esperienza andava rilanciata, facendo un passo più grande. Siamo di fronte a dieci microimprese che fanno un lavoro integralmente artigianale, di assoluta qualità”.

Perché proprio Milano? “Prima di tutto perché è una realtà strategica. E poi perché tanti milanesi sono venuti negli anni da noi, a Casette. Questa volta siamo andati noi da loro, per restarci. Vogliamo essere presenti tutti i giorni, dando un servizio maggiore proprio perché siamo artigiani. Modifiche, riparazioni o ordini tempestivi: in poche ore riusciamo a soddisfare ogni esigenza”.

Dalle parole questa non sembra affatto un'esperienza passeggera. “La prima settimana di apertura abbiamo lavorato bene e attivato parecchi contatti. Per l'inaugurazione abbiamo anche fatto assaggiare prodotti del territorio, come i vini dell'azienda Maria Pia Castelli e i salumi Ciriaci, per dare un'idea completa di quello che è il Made in Marche. Il nostro è un punto nevralgico, con un enorme movimento di persone. Poi, a gennaio faremo un resoconto, un vero e proprio bilancio per capire come muoverci ulteriormente”. (Andrea Braconi)





NUOVI MEZZI, NUOVI LINGUAGGI, EXPOOL CONSORTIUM: COME CAMBIANO I SERVIZI

Sul suo biglietto da visita c'è scritto Executive Director, ma alle etichette preferisce sempre la sostanza. Da oltre trent'anni Luciana Isodori è l'anima di Expool Consortium, un organismo creato nel 1976 che svolge un'attività esclusivamente rivolta alla promozione delle aziende associate all'estero.

Che tipo di servizi fornite alle imprese? “L'organizzazione di fiere, la ricerca di clienti, la divulgazione di quello che facciamo anche tramite i social. Forniamo servizi anche alla clientela che arriva e che si rivolge a noi per essere indirizzata verso le ditte. Accogliamo il cliente, lo accompagniamo verso le aziende, seguiamo le trattative anche a livello linguistico, una sorta di intermediazione. Poi abbiamo contatti con enti pubblici per la gestione di pratiche di finanziamento del settore, convenzioni con fornitori come allestitori di stand o spedizionieri. In sostanza, siamo una sorta di ufficio commerciale per quelle aziende che non possono permettersi di averne uno al proprio interno”.

Recentemente avete sviluppato progetti web come #SeeWhatYouWear. “Si tratta di un progetto social con calzature abbinate ad immagini e scorci del territorio, che sta avendo un ottimo riscontro. E' un veicolo promozionale, perché è evidente ogni volta come il cliente che viene si innamori delle scarpe ma anche del territorio. Così, offriamo un pacchetto completo”.

Controlliamo il termometro del calzaturiero. “La selezione è continua, stanno morendo grandi e piccoli, la sofferenza è palese. C'è una spasmodica ricerca di nicchie di mercato che comunque, come Made in Italy, abbiamo l'opportunità di trovare ancora, ma con nuovi mezzi, nuovi linguaggi. La vendita per le scarpe si sta orientando sull'online, cosa che qui ancora non è ben digerita. Ma le richieste che ricevo dall'estero sono di gente che vuole aprire un negozio online e il servizio si sta spostando in quella direzione. I nostri artigiani dovranno perciò specializzarsi nell'offerta. Altri sono modellisti o creatori di collezioni esteri che, per impreziosire la loro stessa collezione, vogliono che questa sia prodotta in Italia. L'azienda in questo caso rinuncia al proprio brand e produce per. Si limita perciò soltanto alla fase produttiva. I piccoli non hanno forza sui mercati e, perciò, accettano di lavorare in private label”.

Il vostro messaggio, quindi, potrebbe essere insistere, insistere, insistere? “Insistere per chi, all'interno dell'azienda, ha personale qualificato e pronto ad adeguarsi a quello che il mercato richiede. La nostra generazione fa più affanno ad inseguire le novità, mentre i giovani hanno grandi potenzialità. Ma considerato che la vendita da grandi quantitativi non può più uscire dall'Italia – perchè i nostri sono costi troppo alti – occorre fare una cosa speciale, un vero Made in Italy”. (Andrea Braconi)





FARE RETE SI', MA CON LUNGIMIRANZA. SPUNTI DI RIFLESSIONE E POSSIBILI SOLUZIONI: INTERVISTA
ALL'ECONOMISTA MARCO MARCATILI

Quando, nell'aprile del 2011, l'avevamo contattato per avere un quadro della situazione economica delle imprese del nostro territorio, Marco Marcatili (foto), economista Nomisma, ci disse che le principali cause della loro crisi erano da ricercare soprattutto all'interno dei confini nazionali. A distanza di oltre tre anni, siamo tornati a sentirlo per avere una panoramica più aggiornata e concentrata sul settore calzaturiero, punto nevralgico dell'economia locale.

Marcatili, partiamo dai risultati poco soddisfacenti dell'ultimo Micam. E' davvero, e solo, colpa della crisi russa? “Gli elementi geopolitici e finanziari hanno il loro peso sull’esito delle fiere, ma è sempre più evidente come le manifestazioni di questo tipo siano strumenti residuali rispetto a una più ampia strategia di internazionalizzazione d’impresa e di territorio basata sulla forza del 'racconto', sul coinvolgimento degli 'smanettoni' della rete, sulle peculiarità delle reti di vendita reali e virtuali, sul reinterpretarsi all’interno di una nuova 'catena del valore' internazionale e sulla conoscenza e sul legame diretto con alcuni grandi brand internazionali”.

Come si presenta il settore dopo la pausa estiva? “Alla ripresa autunnale lo scenario economico è a due facce: quella rassicurante di conferma delle buone dinamiche e prospettive extra-europee e quella preoccupante di deterioramento del quadro già debole nell’Eurozona e in Italia. Su questo sfondo, i segnali arrivati nel corso dell’estate sono positivi per gli scambi con Stati Uniti, Giappone, Cina e India, ma hanno anche ribadito le difficoltà con Brasile e Russia. Le prospettive per la seconda metà dell’anno sono deboli, ma le previsioni per il 2015 sono di un progressivo allentamento delle tensioni geopolitiche che dovrebbero favorire un miglioramento degli scambi commerciali”.

Le nostre aziende, perlopiù piccole e medio-piccole, continuano ad avere difficoltà ad affermarsi sui mercati esteri, considerati àncore di salvezza visto lo stallo di quello italiano. “Emerge sempre più la consapevolezza di come un sistema produttivo orientato all’export sui mercati internazionali, sia necessario ma non sufficiente a garantire prospettive economiche di ripartenza. Lo tsunami della domanda interna rischia di colpire indiscriminatamente un territorio in cui sono rari gli esportatori 'puri' e dove i mercati locale e nazionale rappresentano la quota maggioritaria del fatturato delle imprese. Il sistema soffre ancora del fatto che per troppi anni ci siamo occupati del 'dentro la fabbrica' senza accorgersi che di lì a poco il 'valore' si sarebbe creato tra la fabbrica e il mondo. La nuova sfida richiede non più un’intelligenza individuale, ma un grande sforzo collettivo”.

Nella precedente intervista aveva individuato nelle reti di imprese una possibile soluzione alla crisi. E' ancora così? “La logica di rete è ancora la soluzione, peraltro in un’epoca dove i concetti di manifattura additiva e riorganizzazione flessibile hanno scardinato gli ortodossi teoremi sull’economia di scala delle imprese. L’obiettivo di creazione di una rete di imprese è stato fin troppo interpretato sul piano materiale, ma non è stato declinato sulla capacità di produrre 'insieme' beni intangibili per scambiarsi informazioni preziose e innovazioni incrementali. Inoltre, le reti d’impresa non possono essere costruite in chiave territoriale per ridisegnare mini-distretti produttivi, ma devono favorire un processo d’integrazione su filiere lunghe e internazionali. La rete può essere la soluzione solo se è in grado di inserire l’impresa nelle nuove 'reti della conoscenza' e in 'network internazionali”.

Innovazione e internazionalizzazione, oggi più che mai, sembrano le parole chiave su cui puntare per il rilancio del settore. “Occorre riconoscere come non è più sufficiente essere tutti d’accordo sulle facili prospettive: è necessario esporsi nel dire 'quale innovazione' e 'quale internazionalizzazione'. Bisogna inoltre chiarire il metodo: come e con quali strumenti attivare un processo innovativo duraturo e come condensare diffuse e interessanti spinte alla ricerca di nuove nicchie di mercato? A questo proposito, due questioni meritano di essere analizzate. La prima chiama in gioco la necessità di potenziare gli effetti delle missioni all’estero. Una seconda emerge dagli ultimi dati del Censimento Istat che fotografano una scarsa propensione a costruire strategie collaborative tra filiere lunghe e a partecipare a un processo di specializzazione flessibile ma non intelligente. Il Fermano-Maceratese come 'territorio del fare' potrebbe oggi caratterizzarsi per la capacità di prendere sul serio alcune di queste questioni e 'rischiare' di misurarsi su alcune sfide”. (Francesca Pasquali)

Ultima modifica il Venerdì, 10 Aprile 2015 10:26

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