Il dramma palestinese con gli occhi della comunità araba fermana. "Pace! Nient’altro": intervista all’Imam Abdellah Labdidi

FERMANO - Al di là della staccionata, fuori dal nostro giardino, c’è la guerra. Non una, purtroppo, e mai una alla volta, come si potrebbe pensare invece guardando al conflitto in Ucraina, disperso nei notiziari tra il politico indagato e il gatto sull’albero. La questione israelo-palestinese non è mai stata di baci e abbracci da quasi un secolo a questa parte, ma dal 7 ottobre scorso una tragica piega l’ha posta al centro del dibattito internazionale, scatenando anche le grida di numerosi tifosi che sostengono l’una o l’altra fazione, che preferiscono lo schieramento all’informazione ragionata, o al riconoscere che in mezzo ai cori si nascondono migliaia di civili, persone, martoriate dai fucili, dalle bombe, dalla fame. È chiaro: solo con la pace – non una tregua – si risparmiano le vite; solo con la pace può esistere un dialogo. Ne abbiamo discusso con l’Imam della comunità musulmana del Fermano Abdellah Labdidi.

Cosa pensa di uno scenario internazionale minato da così tanti conflitti?

Tutti i conflitti hanno una radice comune, ma quello che sta succedendo a Gaza e in Palestina è più di una guerra, per cui vorrei dare un bilancio in cifre, con tutto il rispetto possibile, perché si tratta di esseri umani, ma i numeri servono a far vedere la gravità della situazione, di un conflitto che non è questione recente: (dal 2013 tra i palestinesi; n.d.r.) più di 13.000 morti, tra cui 5500 bambini (informazioni risalenti alla settimana del 20 novembre 2023, a cui si può paragonare un dato corrispondente allo stesso lasso di tempo sul fronte israeliano: quasi 1500 morti, secondo il Sole 24 Ore; n.d.r.). Quello che sta succedendo non è una guerra, ma un genocidio, lo sterminio di un popolo. La guerra non risolve nessun problema: porta solo alla morte, alla distruzione, e aumenta l’odio; e visto che oggi la visione è globale, che tutto il mondo è paese, le conseguenze le sentiamo e le paghiamo tutti.

La religione può essere strumento di pace? È possibile un dialogo fra differenti fedi religiose?

La religione è senz’altro un grande strumento di pace, uno strumento che può portare l’acqua per spegnere i fuochi della guerra, della divisione, dell’odio. La religione permette di vedere negli altri i nostri fratelli, simili, in un tempo di divisione. Troviamo la divisione dappertutto, nella politica, nelle culture, nelle società, ma tutte le religioni possiedono delle componenti universali che possono essere fondamenta per una pace globale. Ho visto dei begli esempi nelle comunità a livello internazionale, come religiosi ebrei e musulmani insieme manifestare a Londra e a New York contro questo conflitto, anche con slogan come ‘non uccidete in nome nostro’. E questa è la vera natura, la vera immagine dei fedeli di qualsiasi credo: sono tutti per la pace. Musulmani, cristiani ed ebrei di tutto il mondo – e parlo anche per il nostro Paese – sono usciti per strada ad alzare la voce per fermare questo genocidio.

Come sta vivendo la comunità araba del nostro territorio il conflitto in Palestina?

Noi facciamo parte di questo mondo. La comunità araba fa parte di questo territorio e vive come vive l’intera umanità. La gente è uscita ad alzare la voce anche nelle piccole realtà come la nostra, non solo nelle grandi metropoli (come dimostrato dalle numerose proteste contro la guerra in tutte le Marche e, lo scorso 12 novembre, in Piazza del Popolo a Fermo; n.d.r). La gente è amareggiata da queste atrocità; siamo anche preoccupati della sua evoluzione e crediamo che l’unica via di salvezza per tutto il territorio, e l’intera umanità, sia quella della pace basata sul confronto, sul rispetto della dignità umana e del diritto internazionale.

La convivenza fra differenti popoli e culture sul nostro territorio si può dire pienamente realizzata? Cosa possiamo fare nel nostro piccolo per realizzarla?

Credo che la diversità sia una ricchezza, e rimane uno degli obiettivi della nostra comunità quello di fare parte a pieno del tessuto socio-culturale del territorio. È un percorso iniziato da tanto tempo: come comunità siamo nati a metà degli anni Novanta, e tutt’oggi continuiamo a lavorare per la pace sociale. Per rispondere alla domanda posso dire che sì, secondo me questa convivenza sul nostro territorio è pienamente realizzata, ma non bisogna abbassare la guardia: serve lavorare sempre, perché niente rimane costante. È un nostro dovere, un dovere di tutti: siamo tutti responsabili di mantenere i risultati ottenuti negli anni. È poi un lavoro compiuto e favorito da tante parti, non solo dalla nostra comunità: le istituzioni e gli enti locali ci sono stati vicini. Ho sempre detto che il Fermano è un esempio, una culla di convivenza fra le diverse culture: lo è stato, lo è, e spero che lo rimanga. Quello che sta succedendo fuori dai nostri confini può influenzare la nostra pace, per questo bisogna stare attenti a conservare questi valori, per il bene di tutti.

Di Danilo Monterubbianesi

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