FERMANO - Viviamo il mondo ognuno con i propri problemi, gli unici veri problemi, a differenza di quelli degli altri che anche fossero gravi, non trovano spazio all’interno delle nostre mura. Abbiamo fatto quattro chiacchiere con chi quelle mura le ha abbattute e ha fatto dei problemi del Sud del Mondo, i propri problemi. Scopriamo una rete non solo di solidarietà, ma anche di risorse, lavoro e competenza, che da quasi 50 anni, dalle Marche, interviene nelle aree più svantaggiate dell’Africa e del Sud America.
Come è nata l’idea della Comunità Volontari per il Mondo? “La storia del CVM comincia all’inizio degli anni ’70 da alcune persone che, dalle Marche, sono partite per esperienze di volontariato nel Sud del Mondo e al ritorno hanno ragionato sul come dare continuità a questa esperienza: il problema infatti era che nelle Marche non c’era una realtà che desse la possibilità di fare volontariato in altri Paesi, e da questa esigenza è nata l’associazione. Nel 1978 è stata ufficializzata la nascita, nel 1980 il primo progetto in Etiopia insieme ai Padri Cappuccini, e da lì inizia la storia. Abbiamo sempre collaborato con altri enti di volontariato”.
Ad oggi che progetti avete in corso? “Abbiamo toccato diversi Paesi come Zambia, Congo, Etiopia. Attualmente lavoriamo in due Paesi: Etiopia e Tanzania, dove continuiamo ad occuparci di acqua potabile. È un filone che portiamo avanti dagli anni ’80, perché è un problema primario. Su questo tema abbiamo sviluppato un po’ di competenze. Andiamo con operatori, tecnici, ingegneri ci occupiamo della realizzazione di acquedotti, della manutenzione degli impianti e delle sorgenti, e oltre al personale italiano abbiamo personale locale e oggi anche qualificato. In questi Paesi si trovano competenze di alto livello, con la diffusione di scuole e università, quindi è possibile confrontarsi con professionisti etiopi in diversi settori, anche in Tanzania”.
Vi occupate di altre problematiche, oltre a quella dell’acqua? “Negli anni ’90 abbiamo lavorato alla protezione dall’AIDS; da lì si è sviluppato un lavoro con le donne e in particolare con il gruppo delle lavoratrici domestiche. Si tratta di un segmento ampio della popolazione femminile, soprattutto in Tanzania, che come in ogni Paese conta anche gente benestante che impiega lavoratrici domestiche. Poi c’è tutto il fenomeno delle donne che emigrano in Medio Oriente per lavoro domestico e su questo fronte ci siamo messi a lavorare, sia in Etiopia che in Tanzania, perché il grande problema che abbiamo riscontrato è che il lavoro domestico non è riconosciuto dalla loro legislazione – nel Centro Africa come nel Medio Oriente -, quindi non può essere sindacalizzato: è un rapporto diretto tra la persona e la famiglia e spesso abbiamo a che fare con minorenni”.
Immagino che la questione si intersechi, purtroppo, con la tratta degli esseri umani. Cosa fate per contrastare il problema? “Dato che non possiamo essere un soggetto di contrasto di primo livello, quello che cerchiamo di fare è la formazione degli operatori delle istituzioni a livello locale, perché il primo problema è che molti magistrati e poliziotti non distinguono quella che è una pratica tradizionale da ciò che è tratta”.
Quindi vi soffermate sui problemi legati ai bisogni primari nei due Paesi africani in cui operate, e poi vi interfacciate con i diretti interessati e con le istituzioni, costruendo anche occasioni di formazione. “Esatto. Un terzo filone è il supporto al tema migratorio: formazione per chi parte e supporto per chi torna malconcia; molte di queste donne affrontano esperienze in Medio Oriente dai risvolti traumatici che comportano abusi, violenze, rimpatri forzati, 30 mila solo quest’anno, tra donne e uomini, e solo dall’Arabia Saudita, per fare un esempio. Abbiamo un centro di accoglienza ad Addis Abeba – capitale dell’Etiopia – dove gestiamo queste situazioni difficili, a cui accompagniamo attività formative e supporto economico. Poi abbiamo il discorso dei ragazzi di strada, che in Etiopia continua ad essere un problema. Minori che per povertà, perché hanno perso i genitori, perché le famiglie non riescono a mantenerli, finiscono in strada. Cerchiamo di ridare loro una prospettiva, con la scuola o una formazione professionale”.
A proposito di lavoro, avete anche qui dei progetti particolari? “Sì, abbiamo sviluppato un paio di progetti nel settore della pelle e della calzatura, facciamo formazione tecnico-professionale in collaborazione con i docenti del CFP Artigianelli di Fermo, sia per docenti di scuole tecniche locali, sia per personale di imprese artigiane, per migliorare la qualità e la sicurezza della produzione. L’Etiopia è ricca di materie prime, e l’utilizzo in loco di queste materie creerebbe molti posti di lavoro”.
Ultime due domande, un po’ provocatorie: dove trovate i fondi, e dato che ci sono molti problemi anche qui in Italia, perché andare proprio in Africa?
“Abbiamo diversi canali di finanziamento: uno è attraverso l’Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo del Ministero degli Esteri, che ha bandi annuali ai quali accediamo. Alcuni bandi promossi dall’agenzia sono nei Paesi stessi, e cercano un soggetto che li realizzi. Anche la Conferenza Episcopale Italiana è un canale importante, con fondi 8x1000. Poi abbiamo una relazione con un partner importante in Irlanda e i contributi da parte del nostro territorio, dai piccoli ai grandi donatori: fondamentali perché qualsiasi bando istituzionale richiede che ci sia una compartecipazione da parte di donazioni spontanee del territorio. È il nostro nocciolo duro, senza il quale non potremmo fare nulla.
Poi, perché lavorare all’estero? I nostri problemi non sono paragonabili con quelli che hanno in quei Paesi. Quando parliamo di povertà, parliamo di povertà estrema. In più qui ci sono tanti soggetti che cercano di dare una risposta, dalla società civile alle istituzioni, che lì mancano. Un’altra cosa è che, dal punto di vista cristiano, dobbiamo evitare di creare steccati, il ‘vengono prima i nostri bisogni’. Siamo tutti uguali sulla Terra”.
Per info e donazioni: www.cvm.an.it
Danilo Monterubbianesi