La staged photography di Monia Marchionni conquista (e racconta) Fermo

FERMO - “Non vedo un luogo come le Cisterne Romane o Piazza del Popolo per quello che è, ma per quello che per me può rappresentare. Inizio ad indagarne la storia ed assemblo quel luogo con particolari che scelgo accuratamente. Diventa così una visione, perché quello che presento non è la realtà ma qualcosa di veritiero. È veritiero nel momento in cui lo allestisco e lo faccio vivere attraverso le persone”. Sarebbero sufficienti queste parole per dare sostanza a “Visioni extra ordinarie”, la personale di Monia Marchionni allestita fino al 16 gennaio all'interno del Terminal Mario Dondero.

Partiamo dalla tua 'extraordinarietà'.

“Sono visioni extraordinarie perché sono al di fuori dell'ordinario, ma comunque si svolgono nel quotidiano. C'è anche la parola ex come riferimento all'antico, al passato proprio in relazione alle foto storiche che affiancano le mie foto visionarie. In questo modo dialogo con il passato, regalo la mia visione della città e per scoprire come è Fermo veramente basta visitarla. È anche un po' un invogliare ad una conoscenza più approfondita.”

Dopo il taglio del nastro dello scorso 11 dicembre, ti aspetto due eventi speciali dentro il tuo grande evento.

“Mercoledì 29 dicembre dalle 16 alle 20 ci sarà un appuntamento in collaborazione con la condotta Slow Food del Fermano e la degustazione di prodotti di aziende del territorio. Un modo in più per attirare gente ad una mostra che si basa sul racconto storico locale. Il secondo evento si terrà domenica 9 gennaio, dalle ore 16, con 4 sassofonisti del Conservatorio Pergolesi. Si sono prestati per delle foto all'interno del progetto e mi piaceva l'idea di dialogare con loro, passando dalla dimensione bidimensionale a quella tridimensionale. E il direttore Verzina, che ringrazio, ha accettato subito la proposta.”

Non è la prima mostra che fai, ma è sicuramente è quella più importante.

“L'ho voluta fare qui al Terminal perché da Fermo sono partita, a Fermo sono nata e a Fermo ritorno. Quando l'ho esposta in altri paesi, anche a livello internazionale, tutti mi hanno chiesto la stessa cosa: c'è sempre stata la curiosità di capire come allestivo quelle foto, se le persone erano comparse, attori o persone trovate sul posto, se quella foto era il risultato di fortuna o se fosse stata voluta.”

Cosa rappresenta per te la macchina fotografica?

“La staged photography è una corrente che non tutti sviluppano. Il mio sguardo è più artistico, per me la macchina fotografica è uno strumento utile ad inscenare un micro film, qualcosa frutto della fantasia ma che parla di ciò che accade tutti i giorni. Ti faccio vedere le emozioni che provi e più che una foto diventa un pensiero quello che ti mostro.”

Sono tanti i luoghi che hai immortalato, anche particolari come il Parco della Rimembranza.

“Questo spazio lo conoscevo ma non ne conoscevo la storia, poi un giorno mi sono fermata, ho visto la teca di marmo e ho letto. In seguito ho riscontrato fonti in biblioteca e ho visto che ogni albero portava il nome di un soldato fermano. Complessivamente sono 131. Da qui mi è venuta l'idea di abbracciare un albero, una sorta di prendersi cura. Come foto sembra inquietante perché ogni albero è un morto, ma allo stesso tempo è bellissima perché tu ricordi il loro sacrificio. E la bambina è il tramandare la memoria, la conoscenza, per saperne di più.”

Come arrivi alla pubblicazione di un libro?

“Ci arrivo perché alla fine di tutto credo un progetto fotografico concepito su un lungo periodo possa diventare un libro. Non mi sento fotografa, la mia predisposizione è più accademica, parto dal bozzetto, allestisco la scena e la mia opera è quella. Poi scatto, ma il tema principale resta quello. E il libro è il finale perfetto, è disponibile per tutti. In questo c'è bisogno di un editore che creda in quel progetto, lo porti avanti e lo valorizzi.”

E Giaconi Editore ti ha permesso di raggiungere questi obiettivi.

“Grazie a Simone sono arrivata al Salone Internazionale del Libro di Torino, che non riesci a fare se un editore non investe su di te. Fare un libro fotografico è anche un azzardo, la foto è un po' di nicchia, ma se si aggiusta il tiro funziona. L'ho anche tradotto in inglese, ho avuto un impaginatore molto serio e preparato. Personalmente ho anche lavorato in una casa editrice, quindi sapevo cosa serviva.”

Che percorso seguirà questo progetto?

“Intanto resta un libro che gira. E sono anche stata chiamata per partecipare a festival fotografici, che sono momenti importanti per veicolare le nuove proposte e che vedono sempre una grande partecipazione. Io mi colloco a metà tra una foto storica, di documentazione, ed una visionaria, di autoreale. E quindi per questo c'è richiesta. La gente si appassiona e da lì prende il libro perché c'è la possibilità di capirne di più.”

Rispetto alla tua visione di Fermo, questa esperienza cosa ti ha dato in più?

“Dopo il primo lavoro in Cile, questo di Fermo è stato proprio 'Il progetto', durato 4 anni e che mi ha permesso di confrontarmi con le istituzioni. Non è stato facile, cercando di coordinare permessi e presenze delle comparse, ma ho saputo organizzarmi bene. E nel momento in cui facevo lo scatto già sapevo tutta la storia di quel luogo. Adesso conosco molto bene Fermo, anche rispetto a luoghi che non avevo mai visto. È stato anche commovente, penso a Villa Vitali dove ho immaginato mondi fantastici. In luoghi come le cisterne romane ho sentito un'empatia particolare, pensando al fatto che durante la seconda guerra mondiale la gente scendeva nel buio per ripararsi dalle bombe. Ho immaginato la paura delle madri, l'inconsapevolezza dei bambini e molto altro. Ricordo perfettamente i momenti in cui ho scattato quelle foto, tra 2016 e 2019: in questo arco di tempo mi sono accadute molte cose, alcune mi hanno fatto crescere, altre mi hanno portato via pezzi di cuore. C'era questa alternanza di un progetto che continuava a crescere e io che non smettevo di evolvere,

quindi rimarrà per sempre 'Il progetto'. Mi ha anche dato una maturità tale per affrontare progetti ancora più importanti a livello emotivo, che diventeranno sempre dei libri o meglio diari aperti tra illustrazioni e foto.”

Andrea Braconi

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