Il senso della memoria

La Memoria e i suoi Luoghi

Nell’uomo, la perdita della memoria definita anche amnesia, consiste nella incapacità di ricordare eventi passati. Quando questo fatto accade non “una tantum”, ma si verifica con una certa frequenza, la cosa può far pensare all’insorgenza di patologie specifiche spesso degenerative. Diceva Cicerone in Cato Maior de Senectute: “Memoria minuitur nisi eam excerseas”. Questo il concetto quindi era ben chiaro già ai nostri antenati, cioè che bisogna allenare la memoria per non farla diminuire e se questo vale per le singole persone deve per forza valere per la Memoria collettiva: anche questa diminuisce e si affievolisce se non viene esercitata e preservata correttamente. Lo sa bene il popolo ebraico che conserva ben accesa la fiamma della Memoria dell’Olocausto con lo scopo di scongiurare il ripetersi di una tragedia simile. Vista l’unicità e la dimensione e la drammaticità di quell’avvenimento, nessuno ha mai obiettato che mantenere focalizzata la Memoria collettiva su quel fatto fosse cosa sbagliata. Ma viene da pensare quando, lo stesso metodo, viene applicato a situazioni di conoscenza e sapere collettivo di molto minore impatto, che tuttavia rischiano di cadere nell’amnesia. Esistono modi e metodi per tramandare il sapere collettivo nel campo della Cultura, del fare le cose e dell’apprezzare il Bello: sono la scuola, lo studio, la precisione e la cura del dettaglio, tanto per fare alcuni esempi. Questo garantisce, con una limitata perdita peraltro fisiologica di conoscenza, di tramandare alle generazioni future il Sapere attuale e anche il Sapere passato, cioè conoscenze e modi di fare desueti che comunque rivestono una importanza per il futuro. Faccio un esempio: suonare la musica attraverso la conoscenza di strumenti e lettura della stessa, ci permette di ascoltare o suonare ancora oggi la musica di Mozart. E non c’è ad oggi la necessità di coltivare la Memoria della musica del 1700, perché tecnica e conoscenza sono correttamente tramandate. Al contrario, tra qualche tempo sarà necessario coltivare la memoria dello studio della geografia e della Storia dell’arte, dal momento che a qualche genio è venuto in mente di smantellare dal sistema delle conoscenze generali e soprattutto dalla Scuola, pezzi dell’insegnamento di queste discipline. Ora c’è un detto: “Quello che trascuri, prima o poi diventa di qualcun altro”: vero in amore, ma anche in altri campi. Trascurare il sapere che una civiltà esprime o dovrebbe esprimere lasciandolo fuori dalle aule della scuola lo fa divenire preda di organizzazioni e circoli, basati spesso su una poco edificante “deregulation” culturale che, per tener deste conoscenze che a loro avviso meritano di sopravvivere, ne uccidono altre di ben superiore valore. Mi ricordo, anni or sono, di un “Museo della Civiltà contadina”, singolarmente piazzato dentro una magnifica chiesa del nostro entroterra, con tanto di affreschi del periodo gotico belli da far girare la testa, dove tra le navate, in mezzo a tanta arte e storia, albergavano con stridente incongruità, aratri, attrezzi da lavoro agricolo, strisce di carta moschicida e compagnia cantando. Per carità, niente da eccepire su qualsiasi iniziativa che preservi il nostro patrimonio di Cultura popolare, ma scegliendo un contesto idoneo, e non certo accostando, per così dire, il Sacro al profano. Quando vengono fatte certe scelte a dir poco opinabili, viene da dire che quasi quasi il rischio di perdere la Memoria non è il male peggiore! Se conservare la Memoria, di qualunque cosa, è indubbiamente importante, talvolta il modo di farlo è decisamente inopportuno e inadeguato. Perché anche la Memoria va preservata e rappresentata nei “suoi” Luoghi, altrimenti si rischia di snaturarla e addirittura di svilirla.

Daniele Maiani



Quei fondi fotografici che raccontano un territorio

L’ultimo fondo fotografico acquisito dalla Fototeca provinciale di Fermo (che ha sede ad Altidona) è quello di Pietro Baldoni, conosciuto come Briscoletta, fotoreporter che per mezzo secolo ha documentato la vita di Macerata. “Dovrebbero essere tra i 150.000 e i 200.000 scatti - ci spiega il responsabile Pacifico D’Ercoli - e dentro c’è la memoria di una città. Baldoni è l’ultimo di una dinastia di fotografi di Macerata, una figura veramente interessante”. Quali sono gli altri fondi che state curando? “Tra piccoli e grandi, intestati a vari soggetti, sono circa 20. Tra i più rilevanti c’è quello di Vittorio Gioventù, che rimane uno dei più importanti; abbiamo Crocenzi per quanto riguarda le fotografie delle Marche e per il quale stiamo pensando, insieme al Comune di Fermo, ad una grande mostra per la primavera. Poi c’è l’archivio di Mario Dondero, veramente sterminato, e mi piace ricordare anche Montefiore dell’Aso, con uno dei fondi più importanti: parlo delle lastre dell’archivio di Francesco Egidi, un importante personaggio. Sono quasi 300 lastre che ci sono arrivate recentemente.” Poi ci sono i vari fondi locali. “Pedaso e Altidona sono molto presenti, Fermo grazie a Gioventù è presentissima, perché lui è quello che ha riprodotto tutte le foto di quei due volumi ‘Fermo ieri e oggi’. Abbiamo più di 1.100 scatti che partono dall’Ottocento e arrivano fino agli anni ‘70.” A proposito di Altidona: pochi mesi fa avete realizzato una suggestiva mostra sui vostri concittadini. “La mostra ‘Gli altidonesi’ è stata fatta sulla falsariga di quello che fece a Luzzara Cesare Zavattini e il fotografo statunitense Paul Strand negli anni ‘50. Ad Altidona il fotografo tedesco Ulrich Weichert ha realizzato nel 2001 dei ritratti ambientati di almeno 80 persone di varia estrazione, dagli ex sindaci agli operai, dagli artigiani ai commercianti. Ne è venuto fuori un bellissimo racconto del paese.” Quindi, alla luce di queste affermazioni, quanto è importante il vostro lavoro di custodi della memoria fotografica? “La fotografia a volte ha la forza di tantissime pagine di scrittura. Solo guardare una foto ti porta a seguire dei percorsi di conoscenza e di memoria che sono difficili da ottenere attraverso altri strumenti comunicativi. Inoltre, secondo me la fotografia va oltre la percezione immediata dell’immagine.”

Andrea Braconi



Gruppo Ortensia e nostalgia della vita contadina

Portatore sano di divertimento e allegria, il Gruppo Ortensia di Ortezzano, con i suoi canti, suoni e balli è da anni custode della memoria delle tradizioni popolari. Maria Teresa Curti, è la coordinatrice che si occupa dell’organizzazione di balli e spettacoli; il gruppo folkloristico si è anche speso sul territorio per dare corsi di saltarello a Fermo, Grottazzolina, Porto San Giorgio. Al Presidente di Ortensia, Mario Borroni, abbiamo chiesto quali siano le origini di questa passione per il folklore? “Io sono nato in campagna da genitori contadini, ci vivo tuttora e non lo cambierei con nessun’altro posto. La vita di campagna è faticosa ma la serenità di quando si stava nei campi l’abbiamo ormai persa. La nascita di Ortensia ha a che fare anche con il periodo storico in cui è nata, si veniva dagli anni ‘60, dopo l’abbandono e lo spopolamento delle campagne, lasciate per andare a vivere in città. Era un momento nostalgico, seguito allo spopolamento delle campagne e all’abbandono delle tradizioni. Il nostro è un modo per salvaguardare la memoria”. Quando è sorta Ortensia? “È stata fondata come gruppo folk nel 1983, grazie ad una collaborazione con la Scuola Media. Siamo partiti con le rassegne scolastiche, portando le tradizioni popolari marchigiane come il saltarello e lo scartozza’, con il quale simulavano l’antica tradizione della raccolta del grano. Da quell’esperienza, abbiamo esteso il discorso anche nella locale pro loco”. Quali sono state le vostre esperienze in questi anni? “Nel 2001 è stata creata l’ Associazione Culturale Folkloristica Ortensia con più di 50 componenti provenienti da tutto il territorio: Montelparo, Monte Rinaldo, Ortezzano, Monte Vidon Combatte, Petritoli, Ponzano e Campofilone, con i fine di portare la nostra cultura in giro per l’Italia. Nel 2005, siamo stati in tourneé per una settimana in Cina, a Shanghai, per dare lezioni di ballo popolare ai cinesi dell’Università di Nanchino. Già dopo due ore oltre 3000 studenti muovevano i passi del saltarello. Nel 2003 abbiamo instaurato un rapporto di collaborazione con Austria, Slovenia e Ungheria, per portare il gruppo di Varlpalota al nostro Festival Internazionale del Folklore. Nel 2008 siamo stati al Parlamento Europeo di Strasburgo”. Come si tramanda la memoria? “Abbiamo realizzato otto cortometraggi sulle tradizioni popolari e abbiamo partecipato a concorsi internazionali dalla Federazione Italiana Tradizioni Popolari, dove abbiamo vinto per due volte il secondo premio, una volta il primo premio, due volte il terzo premio”. Quali sono i temi dei corti? “I matrimoni di una volta, il lavoro in campagna, il rito delle nascite nella vita contadina, la venuta della Madonna”. Con quale tradizione popolare marchigiana vi identificate maggiormente? “Il nostro fiore all’occhiello resta il saltarello, un must al nostro Festival Internazionale del Folklore che da 18 anni a questa parte riproponiamo tra fine luglio e primi di agosto, ogni anno con 3 gruppi di stranieri provenienti da tutti i continenti, per un confronto non solo fra etnie ma di vera socializzazione attraverso i giochi della nostra tradizione popolare”. Quali tradizioni occorre preservare? “Sul palco ricordiamo gli antichi mestieri, la vendemmia, la mietitura, la trebbiatura”. Quale ruolo ha la ricerca? “Occupa tanto spazio, ci serviamo di fonti storiche orali di coloro che hanno vissuto quelle tradizioni; voglio sottolineare la collaborazione con Luigi Rossi, Carlo Verducci, Olimpia Gobbi. Una ricerca molto accurata è stata fatta per i vestiti di Ortensia: abbiamo cercato i costumi napoleonici grazie a pubblicazioni su tradizioni popolari di quel periodo nella zona del Fermano. Grazie a questo lavoro siamo riusciti a confezionare due vestiti, uno per il lavoro di tutti i giorni in campagna e uno per la festa. Sono la cosa più preziosa che abbiamo. Prima alcuni dei componenti, si vergognavano ad andare fuori con i costumi tradizionali, invece adesso ne vanno orgogliosi”.

Serena Murri



Un mondo dietro al cibo

La promozione di un territorio passa attraverso la valorizzazione delle sue tradizioni, a partire dal cibo. Ne è convinto Roberto Ferretti (foto), al punto che da otto anni gira il mondo con il progetto “Le Marche in valigia” creato nell’ambito dell’associazione Agrituraso, fondata nel 2007 insieme ad altri 7 soci, proprietari come lui di strutture ricettive o produttori enogastronomici. “Il cibo è un veicolo, ma dietro al cibo c’è un mondo - sottolinea -. E questo cerchiamo sempre di far capire ai nostri ospiti o durante le varie trasferte all’estero. Il mangiare è un atto agricolo, una massima assunta anche dallo Slow Food. É l’ultimo atto di un processo che inizia dal seme o dall’ovulo, finendo nel piatto. Noi cerchiamo di rendere consapevoli le persone di tutto questo, perché c’è da raccontare un mondo. E questo processo è ancora più valido quando si parla di dieta mediterranea, in cui i cibi e le produzioni stagionali passano direttamente dal produttore al consumatore”. Un modo per portare avanti questa filosofia è quello di accompagnare gli ospiti direttamente dal produttore. “È fondamentale conoscere e raccogliere i frutti delle loro produzioni e preparare delle pietanze direttamente nelle aziende”. Un passaggio cruciale, quindi, che Ferretti ci racconta proprio mentre sta accompagnando ad Ascoli Piceno alcuni giapponesi appassionati di agricoltura. Rimanendo sul fronte della memoria, da parte di Agritur-aso c’è stato anche un forte impegno nella fase post sisma. “Abbiamo fatto un’iniziativa a sostegno del recupero della Chiesa di Santa Maria in Pantano, in territorio di Montegallo. Purtroppo è tutto bloccato e non sappiamo a chi consegnare i circa 2.000 euro che abbiamo raccolto. È una situazione che ci mette in imbarazzo con chi ci ha aiutato, ma una cosa che facciamo da sempre è quella di portare i nostri ospiti nei pacchetti una visita sui Sibillini, prevalentemente a Montemonaco dove c’è uno dei pochi musei attivi, quello della Sibilla”. Anche nell’ultimo viaggio in Germania sono stati raccolti circa 200 euro, che verranno devoluti probabilmente al Comune di Ussita per un progetto. “La memoria serve per il futuro - ribadisce con determinazione -. Se non capisci le tue origini e la tua identità, non riesci a progettare alcun futuro ed il presente avrà uno scarso significato”. E tra le varie iniziative per mantenere vive le tradizioni locali, Ferretti ricorda come dal 2009 l’associazione organizzi la vendemmia, facendo pigiare l’uva con i piedi e proponendo i cibi tipici di quel momento dell’anno. “Ma in ogni stagione c’è sempre qualcosa, d’estate la lavanda, poi i tagliulì pelusi a Moregnano e altro ancora. Certo, attraverso queste iniziative non abbiamo la capacità di far ripopolare questi piccoli e bellissimi borghi, ma sicuramente possiamo destare l’attenzione della gente in prospettiva di un possibile recupero. E la soddisfazione più grande per noi è quando le persone che vengono ti dicono ad esempio ‘Io a Monte Vidon Combatte non c’ero stato mai, eppure è così bello’ oppure ‘Che meraviglia Moregnano’. Quando questo accade ci convinciamo ancora di più di essere sulla strada giusta”.

Andrea Braconi



Operazione "nostalghia"

Durante un’intervista, alla domanda sul perché dell’importanza del tema della memoria, Paolo Rossi, docente di fama internazionale ed ex Presidente della Società Filosofica Italiana rispose: “La prima cosa che mi viene da dire è che il tema della memoria non è solo un parte della filosofia, ma aspetto radicato profondamente in ciascun essere umano che ha il terrore di essere dimenticato.” Un’opinione questa possibile da tracciare anche nelle parole e nei lavori di Andrea Livi, storico editore fermano che con gli occhi intrisi di nostalgia e tenero disincanto racconta l’emozione dei ricordi. “I tempi sono cambiati radicalmente – esordisce dicendo Livi -. Quello che prima era il farsi una foto assieme agli altri, al fine di tracciare memoria di quell’amicizia giovanile o di un’occasione per rinsaldare rapporti fra vicini o fra compagni di giochi, ora è divenuto un atto privato della sua unicità e bellezza. Oggigiorno con l’uso degli smartphone si registra una produzione spropositata di immagini da repertoriare, le quali sono così sovrabbondanti che non hanno nemmeno bisogno di essere conservate come quella piccola foto su carta che una volta scattata si proteggeva gelosamente portandola sempre con sé in tasca o nel portafogli. Difficile sarà dunque far memoria dei rapporti fra fidanzati con lettere da conservare, con quel messaggio rubato che un giorno scopriranno i figli o nipoti in quell’angolo nascosto ed impolverato della casa, difficile sarà leggere e rivivere la quotidianità delle ragazze che nero su bianco viveva sulle pagine di segreti diari. Poi c’è la memoria alta, quella nazionale, quella che viene prima di tutti, ma che purtroppo la scuola ha depauperato. Ben difficilmente anche un ragazzo della scuola secondaria superiore conosce la data della scoperta dell’America. La storia è la grande negletta della nostra società ed io non saprei vivere in un luogo senza conoscerne la sua storia, mi sentirei un estraneo. A dimostrazione di ciò riporto l’esempio di un recente lavoro editoriale che vede protagonista il diario di un piccolo contadino di Corridonia che ha annotato giorno per giorno con la sua grafia slavata, con pezzetti di matita e senza punteggiatura. Per i suoi figli e nipoti questo lavoro sarà un’indelebile traccia del nonno. Poi c’è la memoria che risiede nei libri fotografici – ha concluso l’editore - dei quali mi sento parte integrante poiché in loro ho raccolto frammenti di vita. Questi libri collettivi sono oggi patrimonio comune. Non tutti però hanno il gusto della memoria, l’interesse è volto all’attimo presente e non fuggente. Ciò che è passato è passato e, ahimè, nessuno ha voglia di spolverarlo”.

Federica Balestrini

Il valore della memoria va trasmesso dalla scuola

Dalla reliquia della mano di San Giovanni Battista conservata a Rapagnano, fino al Coheher inventato dal monterubbianese Temistocle Calzecchi Onesti, utilizzato da Marconi per il suo telefono senza fili: tante sono le storie che ruotano intorno al Fermano, spesso ancora poco conosciute o del tutto sconosciute ai più. Una delle voci più impegnate nella conservazione della memoria è sicuramente Giovanni Martinelli (foto), presidente per 30 anni della “Contesa del Secchio” di Sant’Elpidio a Mare e attuale dell’Associazione Marchigiana Rievocazioni storiche, che a fine mese consegnerà l’annuale Premio Benemerito per la Storia delle Marche. “Lo sa che?” iniziano così i suoi racconti che toccano luoghi che vediamo tutti giorni, come Villa Eugenia a Civitanova Marche, di proprietà della famiglia di Napoleone III e chiamata così in nome di sua moglie; o ancora Grottammare teatro di una cena fondamentale per la costruzione del Regno d’Italia. Martinelli, quant’è importante, a suo parere, conservare la di un territorio e, soprattutto farsene tutori? “Credo sia fondamentale. Senza memoria non si può andare lontano, è come voler insegnare una lingua senza le coniugazioni. Il valore delle tradizioni va portato avanti, anche in quest’epoca che sembra non aver bisogno del passato”. Lei ha scritto il libro “100 illustri personaggi del Fermano” e articoli su numerosi esponenti della storia locale. Quanto lavoro c’è dietro e perché il tutto, spesso, è poco conosciuto dai turisti, ma anche dalla popolazione locale? “Non sempre chi accoglie i turisti è a conoscenza di tutti i particolari. Per questo è importante la conservazione della memoria soprattutto da parte di chi un territorio lo abita, per rafforzare la propria identità e dare il giusto peso al senso di appartenenza. Per ciò che riguarda l’impegno dietro il lavoro di ricerca, non c’è un tempo specifico. Mi definisco “un giornalista della storia”: leggo molto, ho parecchi testi e quando scopro qualcosa lo metto da parte, poi collego il tutto. Io cerco di suscitare l’interesse nei miei scritti, se poi un lettore vuole documentarsi ulteriormente inserisco sempre i riferimenti nella bibliografia. Inoltre, ci sono gli archivi. Prima era più difficile, per gli appunti bisognava utilizzare dei foglietti e copiare tutto a mano. Ora invece è possibile utilizzare lo scanner, per esempio, o consultare archivi digitali”. Quali difficoltà si incontrano nella conservazione in piccole realtà come la nostra? “Il Fermano è un contenitore straordinario di storia: il problema è che si trova tutto nascosto in cantina. A volte mi chiamano negli istituti scolastici per parlare di ciò che scrivo, nei ragazzi noto un certo interesse: è la scuola che dovrebbe lavorare molto di più sull’identità, sui valori della memoria. I programmi sono ministeriali, è vero, ma c’è spazio per trasmettere un minimo di storia locale. Ci sono tanti pretesti: si può parlare di un certo fatto storico, per esempio quest’anno è l’anno del centenario dalla fine della Prima guerra mondiale. Si potrebbe raccontare di come l’Austria abbia bombardato il nostro litorale o di come il primo italiano entrato a Trieste dopo la liberazione, era originario di Porto Sant’Elpidio. A suo tempo, oltre alla passione trasmessami dalla mia famiglia, sono stati gli insegnanti a notare la mia predisposizione per la storia e a stimolarmi”.

Silvia Ilari

Ultima modifica il Venerdì, 09 Novembre 2018 11:13

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